Corriere della Sera 16 febbraio 2008, Sergio Romano, 16 febbraio 2008
INSURREZIONI ANTIGIACOBINE LA FEDE CONTRO I FRANCESI
Corriere della Sera 16 febbraio 2008.
A proposito delle recenti interpretazioni del Risorgimento in chiave di controstoria mi trovo perfettamente in accordo con lei quando identifica i due filoni revisionisti, quello leghista e quello filoborbonico. Tutti e due questi filoni mi sembrano poco rilevanti dal punto di vista più strettamente storiografico, ma ad essi andrebbe aggiunto il filone cattolico-integralista che è altrettanto dilettantesco e provocatorio, ma che in alcuni casi, come sul problema delle rivolte antifrancesi del 1799, affronta aspetti storiograficamente rilevanti su quella che è stata definita la più grande «jacquerie» della Storia d’Italia. Lo stesso Giuseppe Mazzini vide nelle rivolte antifrancesi una sorta di movimento popolare dotato di caratteri nazionali ancorché espressi in chiave localistica e spontaneistica.
Il fatto che furono guidate da preti o vescovi, oppure da notabili locali, non toglie nulla al significato nazionale che seppe individuare Mazzini. Del resto l’atteggiamento degli intellettuali filogiacobini schierati a favore degli occupanti francesi privò le masse popolari di quella guida intellettuale e politica che altrove si manifestò nei Paesi occupati dalle armate napoleoniche, come ad esempio in Spagna. La separazione fra intellettuali e popolo che si verificò nel 1799 nella Penisola, generò una diffidenza e una separazione che gravò a lungo sulle vicende del Risorgimento e del post-Risorgimento.
Purtroppo la storiografia, compresa quella liberale, non è riuscita mai a valutare con piena comprensione storica la gravità di quegli eventi bollando le manifestazioni popolari contro i francesi con l’accusa di superstizione e di oscurantismo. Le tradizioni religiose sono di per sé complesse, ma la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale ed è per questo che le conseguenze di quei fatti si fecero sentire in tutto il corso del Risorgimento e certamente indebolirono le basi di consenso al momento della nascita dello Stato nazionale. Purtroppo lo stesso revisionismo neogramsciano, per quanto storiograficamente molto più solido, ha lasciato il segno di interpretazioni critiche di cui si sono serviti tutti i revisionismi successivi.
Zeffiro Ciuffoletti
ciuffolettirisorgimento@ hotmail.com
Caro Ciuffoletti,
Negli anni in cui fu la potenza egemone del continente, dal 1792 al 1815, la Francia rivoluzionaria e napoleonica ebbe sui Paesi conquistati e amministrati una duplice influenza. Fu anzitutto modernizzatrice. Svecchiò le antiche strutture e demolì gli ordini feudali. Introdusse una legislazione moderna. Creò scuole, tribunali, organi di giustizia amministrativa, eserciti moderni fondati sul valore e sul merito. Ridusse considerevolmente il potere delle Chiese. Favorì la nascita di una borghesia che divenne da quel momento sempre più presente nel mondo degli affari, della politica e dell’amministrazione.
Ma la Francia fu anche nazionalista, imperialista e finì per suscitare le resistenze di coloro che non volevano essere dominati da una potenza straniera, anche se finirono poi per combattere in nome di uno Stato nazionale paradossalmente ispirato, per molti aspetti, a quello del Paese contro il quale rivendicavano la loro indipendenza. La prima rivolta cominciò in Spagna nel 1808 e fu illustrata da due splendidi quadri di Goya: il «Dos de Mayo», in cui viene rappresentata la lotta dei popolani di Madrid contro i mammalucchi francesi, e il «Tres de Mayo» in cui un plotone di esecuzione uccide gli insorti catturati nella giornata precedente. La seconda insurrezione fu quella russa del 1812 quando la guerra dello zar contro Napoleone divenne guerra di popolo, condotta da bande di contadini e milizie popolari contro i fianchi della Grande Armée durante la sua lunga ritirata. E la terza infine fu la «Erhebung» (insurrezione) tedesca del 1813 quando Federico Guglielmo III, nel febbraio di quell’anno, indirizzò un appello al suo popolo per chiedergli di contribuire alla lotta con la formazione di corpi volontari.
Queste tre grandi insurrezioni popolari ebbero una sorte diversa e furono talora spente o soffocate dai sovrani, non appena riconquistarono il controllo del loro territorio. Ma furono anche manifestazioni di una forte identità nazionale e di una nascente coscienza civile. Come lei sa, caro Ciuffoletti, le cose da noi andarono diversamente. I moti di popolo, soprattutto nel-l’Italia meridionale e in alcune parti della Toscana (Arezzo), risalgono alle prime occupazioni francesi e furono in buona parte manifestazioni di fanatismo religioso guidate, come lei scrive, da prelati e signorotti locali. So che il fenomeno ha suscitato recentemente l’interesse degli studiosi ed è stato rievocato in alcuni convegni. Ma temo che questo populismo cattolico, devoto e plebeo, sia una ulteriore prova del ritardo e della fragilità del nostro sentimento nazionale.
Sergio Romano