Il Sole 24 ore 10 febbraio 2008, Gianfranco Ravasi, 10 febbraio 2008
Le parole della Quaresima. Il Sole 24 ore 10 febbraio 2008. Sèder, parashah, haftarah, "pericope", "lezionario": prendiamo un po’ alla lontana attraverso questo lessico un po’esoterico il discorso che vogliamo fare in questa domenica, posta in capite Quadragesimae, cioè in avvio del tempo liturgico quaresimale
Le parole della Quaresima. Il Sole 24 ore 10 febbraio 2008. Sèder, parashah, haftarah, "pericope", "lezionario": prendiamo un po’ alla lontana attraverso questo lessico un po’esoterico il discorso che vogliamo fare in questa domenica, posta in capite Quadragesimae, cioè in avvio del tempo liturgico quaresimale. A proposito, quanti sanno correttamente definire cosa sia la "Quaresima"? Tempo fa il vescovo di un’importante diocesi francese mi raccontava che, mentre era in visita pastorale a una parrocchia, incontrando i ragazzi della scuola, chiese loro cosa fosse appunto la Quaresima. Un gruppetto dei più preparati rispose senza esitazione: « il Ramadan cristiano!». E questo, pur senza cadere in lamentazioni sulla perdita delle nostre radici religiose e culturali, ci fa capire in modo folgorante quanto si stia stingendo e forse estinguendo la nostra identità storico-spirituale. Ma ritorniamo a quei vocaboli. I primi tre sono ebraici ed eccone i significati. Sèder, "ordine", definisce i vari brani (154/155 per alcuni; per altri, 167) in cui la tradizione giudaica palestinese ha sezionato la Torah (cioè i primi cinque libri biblici) per la lettura settimanale sinagogale, così da coprire un arco di circa tre anni e mezzo. Lo stesso termine è usato anche per indicare la sequenza dei riti della cena pasquale ebraica. Parashah ("capitolo, brano") è, invece, la definizione dei 54 brani in cui la stessa Torah fu divisa per la lettura sabbatica annuale dalla tradizione giudaica babilonese. Haftarah ("separazione") denota il brano dei testi profetici biblici, letti dopo il sèder (o la parashah) della Torah, nella liturgia sinagogale sabbatica mattutina, come seconda lettura. Ebbene, il Cristianesimo antico pare che abbia voluto seguire questa prassi giudaica della lettura per brani delle Sacre Scritture elaborando vari "lezionari" (dal latino lectio, "lettura"). Essi erano suddivisi in "pericopi", parola di genesi greca ("taglio", sezione"), cioè in brani da distribuire nella liturgia. Alcuni lezionari sono molto antichi e sono accostati ai papiri e ai codici che ci hanno trasmesso il testo biblico: è per questo che sono vagliati dalla critica testuale che li indica con la l (se sono evangeliari) oppure la ( se contengono gli Atti degli apostoli o le Lettere paoline), seguite da un numero di classificazione. Tutta questa lunga premessa è per approdare ai nostri giorni e all’ultimo prodotto di quell’antico genere testuale, ossia i tre nuovi grossi tomi del Lezionario domenicale e festivo approntato dalla Conferenza episcopale italiana per il ciclo triennale delle letture bibliche che scandiscono ogni celebrazione liturgica delle domeniche e delle feste e solennità. Gli anni sono segnati dalle prime tre lettere dell’alfabeto (quest’anno è di scena l’anno A) e hanno come guida sostanzialmente i primi tre Vangeli, cioè Matteo (A), Marco (B), Luca (C), con interpolazioni talora di Giovanni. Le letture bibliche proposte sono ogni domenica a trittico: si parte di solito con un brano dell’Antico Testamento, accompagnato da un Salmo; si passa a una "pericope" desunta dall’epistolario paolino e si conclude col Vangelo. Si ha, così, un’offerta antologica della Bibbia, con connessioni tematiche tra prima e terza lettura, cioè tra Antico Testamento e Vangelo, mentre il brano paolino è selezionato seguendo in continuità le singole lettere dell’apostolo. Prassi antica, dunque, che ha sollecitato nei mesi scorsi l’interesse dell’opinione pubblica per la (relativamente) nuova versione italiana della Bibbia adottata in questo Lezionario e per qualche incidente tipografico (in verità anche nell’antichità i copisti o editori cascavano in qualche mendum, donde la necessità di successive edizioni "emendate"). Sarebbe, certo, curioso segnalare le nuove opzioni proprie di questa traduzione ben sapendo la verità dell’asserto di Cervantes che comparava ogni versione al pallido e triste «rovescio di un arazzo», idea resa lapidariamente da Mounier nel titolo del suo saggio sul tradurre, cioè La belle infidèle. Tutti i giornali hanno dimostrato a sufficienza la loro scarsissima conoscenza biblica quando hanno ironizzato, ad esempio, sulla nuova resa del saluto "Rallegrati!", rivolto dall’angelo dell’Annunciazione a Maria: non si trattava di cambiare la tradizionale "Ave, Maria" che permane nel testo dell’omonima preghiera, ma di precisare il valore del testo che l’ha generata. Luca, infatti, col greco Chaire rimanda a una ben nota formula biblica di stampo profetico che vuole esaltare la gioia apportata dal Messia (si legga, ad esempio, Sofonia 3,14) e non mettere in bocca all’angelo un saluto di cortesia a una donna. Noi, invece, vorremmo sottolineare un altro aspetto che rende sorprendentemente attuale e "moderna" un’opera come questa, apparentemente così paludata e sacrale. Questo scarto appare già nella copertina dei tre tomi ove campeggia un "agnello" apocalittico, tratteggiato nientemeno che da Mimmo Paladino, uno dei prìncipi della Transavanguardia, che si ripresenta poi nelle illustrazioni a piena pagina dei volumi evidente ammiccamento all’antico splendore delle miniature con un altro agnello pasquale, un’intensa croce ad acquerello e foglia d’oro per il Venerdì Santo, un paio di smaglianti evocazioni della Gerusalemme celeste, un veemente Bacio di Giuda e altro ancora. Un altro protagonista della Transavanguardia come Sandro Chia s’affaccia anch’egli con un figurativo Buon Pastore e un’inattesa tempera sulle Tentazioni di Gesù. Ma, a compenso, ecco le eteree luminescenze delle epifanie cromatiche di Valentino Vago con le sue filigrane simboliche, oppure la convocazione della presenza possente di un Arnaldo Pomodoro a cui dobbiamo una Trasfigurazione che sembra un portale di bronzo sull’Infinito, nonostante il soggetto sia più modestamente affidato a una tecnica mista su carta. La stessa varietà dei supporti materiali conferma la novità delle opzioni: il compianto padre Costantino Ruggeri s’affaccia con una sua estrema Annunciazione in tempera su masonite, mentre l’incipit dell’Avvento dell’anno B è affidato a un autore che usa un legno multistrato con cera, pigmenti e gesso, e così via fino ad altri pittori che ricorrono allo spray acrilico o al nastro di acciaio inox o alla radiografia. E il pur prevalente dominio di artisti è insidiato dagli interessanti ingressi femminili di Margareth Dorigatti, Letizia Fornasieri, Alessandra Giovannini e Chiara Pasquetti. Che sia la volta buona per iniziare un nuovo dialogo tra fede e arte contemporanea, fino a permetterci di sognare un padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia? Gianfranco Ravasi