varie, 14 febbraio 2008
Tags : Michele Greco
Greco Michele
• Palermo 12 maggio 1924, Roma 13 febbraio 2008. Mafioso • «[...] il ”papa” di Cosa nostra che con giudici e cronisti faceva il finto tonto: ”Mi dovete spiegare in che cosa ho ”mafiato’... ”. E sulla tragedia siciliana dei maxi processi celebrati contro stuoli di assassini e stragisti Michele Greco provava ad introdurre tratti da commedia. Suscitando solo l’obliquo sorriso dei compagni di cella. Perché le sue pupille di ghiaccio lanciavano premonizioni funeste. Diceva già nell’87 ai magistrati ”la pace sia con voi”. E, accarezzando la Bibbia, nel marzo del 1991, durante una breve uscita dall’Ucciardone per un errore subito riparato da Giovanni Falcone, si definì ”l’uomo più scalognato del secolo”, ma ”con un dono inestimabile: la pace interiore che non vendono nei negozi...”. Un anno dopo, il terremoto scatenato da Riina e Provenzano squassava il Paese con i boati di Capaci e via D’Amelio. E lui continuava a pregare, ripetendo la litania di essere solo ”un agricoltore, uno sperimentatore di innesti di agrumi”, riferendosi a limoni e mandarini della ”Favarella”, la tenuta fra Ciaculli e Croceverde Giardini dove i pentiti giuravano di aver visto arrostire sulla griglia le vittime della mafia. Con i resti dati in pasto a cani e maiali. Una ferocia che rende ancor più blasfemo quell’appellativo sul quale celiava: ”Papa? Forse sono pure re, generale, capo, pazienza... Ma anche se la mafia è diventata commerciabile, io non ne capisco niente”. E negava, come aveva fatto con Falcone: ”Giudice lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela leva nessuno”. Aveva ragione. Falcone ottenne un decreto del governo che ripristinò la detenzione per Greco ed altri 40 boss, in contrasto con i ”cavilli” del giudice Carnevale. E il padrino- papa, sguardo furbesco: ”Carnevale? Siamo in quaresima, che cosa mi andate chiedendo di carnevale...”. Fa cinema, diceva qualcuno. E la strada del cinema tentò con un paio di film trash il figlio, in arte Giorgio Castellani, regista arrestato, assolto e dimenticato. Mai comunque una ammissione sugli orrori attribuiti al ”papa”, dalla strage Chinnici al delitto del segretario Dc Michele Reina, dal massacro del presidente della Regione Piersanti Mattarella a quello del segretario regionale del Pci Pio La Torre e così via. Lo chiamavano il ”papa” per una presunta abilità a mediare fra cosche e ”famiglie”, ma in effetti il padrino che col suo carisma riuscì a farsi accogliere nei salotti di una borghesia pingue e impaurita, al culmine della carriera criminale non mediò affatto e calò la testa ai Corleonesi. Perché Michele Greco tradì i suoi amici palermitani, fingendo di non sapere chi seminava morte o faceva sparire 300 persone all’anno, appunto coprendo i ”viddani”, i villani arrivati dalla provincia. Se ne è andato dopo il vano appello lanciato al giudice di sorveglianza che in estate gli negò permessi e libertà. Un appello su quegli acciacchi: ”L’umidità della cella corrode le ossa. Sono sepolto vivo...”. Con lui tramonta l’icona di una Palermo che subisce, collude e incassa, indolente e complice. Ma nel suo ventre molle talvolta anche aristocraticamente schizzinosa. Come accadde in un circolo di Mondello, alla ”Vela”, dove si discusse alla fine degli anni Settanta il problema della sua iscrizione. Lui stava già nel vicino club dell’Addaura, al ”Tiro a volo”, dove spadroneggiava con quelle sue luccicanti doppiette, sempre in gara per colpire i piattelli. Ma, nonostante una coppia di medici volesse farlo approdare a Mondello, il vertice della ”Vela” si oppose. Perché tanti professionisti e burocrati, pur in rapporti con il personaggio, diffidavano e non volevano ritrovarselo agli stessi tavoli. Come una volta accadde. Materia processuale per Falcone che aveva appreso di una cena di Greco in quel circolo, deciso a risalire dai registri degli ospiti all’identità dei commensali. Allora lavorava nel pool Giuseppe Ayala che alla ”Vela” era iscritto. Gliene parlò e il suo collega e amico provvide lo stesso giorno. Ma trovò a Mondello solo un registro con una pagina strappata» (Felice Cavallaro, ”Corriere della Sera” 14/2/2008) • «La sua masseria era magnifica, in mezzo alla zagara delle ultime gole della Conca d’Oro. Lui stava nella penombra, non era più abituato alla luce. Si copriva gli occhi con le mani e si lamentava: ”Gli amici del diavolo per cinque anni non mi hanno fatto mai vedere il sole”. In nome della legge - una sentenza della Cassazione - era appena tornato libero per settantadue ore. Fu quella l’ultima volta, era il febbraio del 1991, che ”il papa della mafia” riuscì a sentire i profumi della sua Palermo e a tornare in quella bella tenuta dove erano passati cardinali e ministri, conti, procuratori, principi, generali e assassini. [...] signorotto con la faccia da prete di campagna [...] trent’anni prima aveva consegnato la mafia siciliana nelle mani di Totò Riina [...] Per ventura o per sventura era stato in cima a quella Commissione provinciale che decideva della vita e della morte degli uomini, la Cupola, il governo di Cosa Nostra. [...] Gli ultimi ricordi felici che gli erano rimasti lo portavano a quei tre giorni che l’eccellentissimo giudice Corrado Carnevale diciassette anni prima gli aveva regalato, una scarcerazione - per lui e per un’altra quarantina di boss - per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Uscirono in massa dall’Ucciardone gli imputati del primo maxi processo, tornarono dentro tutti con decreto governativo. Anche lui, anche lo ”zio Michele”. Era voluto andare là per l’ultima volta, nella sua masseria sullo spigolo fra la via Croceverde e la via Giardina, la borgata prendeva il nome proprio dalle due strade che scendevano ripide dalla montagna di Gibilrossa. ”Sono di qui, sono di Croceverde Giardina e non ho mai avuto niente a che fare con i Greco Ciaculli”, raccontava risentito ai giornalisti che lo avevano inseguito fino alla Favarella. E finalmente iniziò a parlare. Non si fermò più. ”E qui è venuto a mangiare Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini, qui sono passati uomini politici importantissimi, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo era di casa, aveva anche le chiavi della Favarella...”. Per quei paradossi della giustizia italiana, in quel giorno di febbraio del 1991, ”il papa della mafia” aveva un ergastolo e nove condanne in quattro Corti di Assise ma risultava ancora incensurato. L’avevano anche accusato di 147 omicidi, per 143 volte era stato assolto. Sulle strade di Palermo già uccidevano poliziotti come Boris Giuliano e procuratori della Repubblica come Gaetano Costa ma Michele Greco aveva ancora il porto d’armi. Con la doppietta in spalla se ne andava a sparare al tiro a segno dell’Addaura, aveva il passaporto, frequentava senatori e onorevoli della Regione. Tutti invitati per la ”mangiata” alla Favarella. Un giorno loro e un giorno quegli altri: Totò Riina, Rosario Riccobbono, Salvatore Inzerillo, Bernardo Provenzano, Totò Minore, Giuseppe Di Cristina, Tano Badalamenti, Leoluca Bagarella. Tre generazioni di boss sono sfilate nei giardini di limone di Michele Greco. ” un pupo nella mani dei Corleonesi”, disse una notte Tommaso Buscetta al giudice Falcone. E quella notte fu l’inizio della fine del «papa della mafia”. Cominciò a indagare sui misteri della Favarella un ragazzo che non aveva neanche trent’anni, Calogero Zucchetto, un poliziotto della Squadra mobile che sulla sua Vespa si spingeva fino a Croceverde Giardina per vedere da vicino chi entrava e usciva dai possedimenti del ”papa”. Lo uccisero. Cominciò a indagare il commissario Beppe Montana che alla Favarella cercava i latitanti. Lo uccisero. Cominciò a indagare anche Ninni Cassarà, il capo dell’investigativa. Uccisero pure lui. Aveva appena consegnato a Giovanni Falcone un rapporto che aveva come intestazione ”Michele Greco + 161”. Lì dentro c’era il romanzo nero della Palermo degli Anni Ottanta, la trama della guerra di mafia che aveva appena fatto mille morti nell’isola, la mappa delle ”famiglie”, i nomi di tutti gli affiliati a Cosa Nostra. Da quel rapporto Giovanni Falcone e gli altri giudici del pool costruirono il maxi processo. Il numero uno di quei 474 imputati era ”il papa della mafia”. La notte di San Michele - il 29 settembre dell’84 - la notte che la più grande retata antimafia della storia si portò all’Ucciardone centinaia di capi e sottocapi e soldati della Cosa Nostra, i poliziotti non trovarono Michele Greco alla Favarella. Si era già buttato latitante. Aveva trovato riparo ai piedi delle Madonie, in un casolare alle spalle del paese di Caccamo, una cinquantina di chilometri da Palermo. Fu preso un paio di anni dopo dai carabinieri, il ”giuda” che lo tradì per 200 miserabili milioni lo fecero fuori al tramonto. Nel casolare di Caccamo don Michele era solo, solo con un mulo. L’aula bunker, quella mastodontica costruzione che sembrava un’astronave attaccata al carcere dell’Ucciardone, lo ricevette con riverente silenzio. Tutti gli imputati lo seguirono con lo sguardo quando uscì dalla gabbia numero 31 e cominciò a rispondere alle domande, prima del presidente Alfonso Giordano e poi del giudice a latere Piero Grasso. Signor Greco, lei è accusato di svariati omicidi... ”Signor presidente, la violenza non fa parte della mia dignità”. E subito dopo don Michele aggiunse: ”Mi volete spiegare in che cosa avrei mafiato?”. Le sue battute al maxi processo sono rimaste celebri, la sua ”parlata” è diventata per anni uno slang delle borgate palermitane. A Falcone disse: ”Giudice, lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela toglie nessuno”. All’ultima udienza del maxi processo, i giudici si stavano ritirando in camera di consiglio, Michele Greco prese la parola: ”Signor presidente, io vi auguro la pace eterna a tutti voi. La serenità è la base fondamentale per giudicare, non sono parole mie ma sono parole del nostro Signore”. Una pausa e poi sibilò qualcosa che sembrò a tutti un avvertimento: ”Vi auguro che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita”. Fu condannato all’ergastolo. Dopo neanche due anni qualcuno gli diede una nuova speranza. ”Il giudice che mi ha assolto ha due palle grosse come il mio mulo di Caccamo”, dirà quando una Corte di Assise lo assolse dall’associazione mafiosa. Era il maxi-ter, uno dei tanti tronconi dei processi istruiti da Giovanni Falcone. Furono assolti anche Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò. Una sentenza scandalosa, in quel momento sembrò far crollare tutta l’impalcatura delle inchieste su Cosa Nostra. Michele Greco era già stato condannato al carcere a vita in Corte di Assise a Caltanissetta come mandante dell’omicidio del consigliere Rocco Chinnici e ad un altro ergastolo a Palermo al primo maxi processo, quel verdetto però rischiava di rimescolare tutte le carte, cancellare per sempre il cosiddetto ”teorema Buscetta”. L’unicità di Cosa Nostra, la Cupola, le ”famiglie”. In sostanza l’esistenza della mafia» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 14/2/2008) • «Il mafioso dei salotti buoni, don Michele Greco detto il ”papa”, amava sottolineare che la sua origine era la borgata di Croceverde Giardini e non la Ciaculli tristemente nota alla cronaca nera. Anzi, in una delle frequenti esternazioni destinate alla salvaguardia dell’immagine propria e dell’intera famiglia, aveva proprio detto: ”A me mi ha rovinato l’omonimia con quelli (che poi sono cugini) di Ciaculli, ma io non c’entro nulla, io sono di Croceverde”. E alla Corte d’Assise del maxiprocesso, spiegò: ”Se anzicchè chiamarmi Michele Greco mi chiamassi, ad esempio, Michele Roccapinnuzza, tanto per dire, non mi troverei qui...”. Eccolo, dunque, il mafioso ”finto buono”. Don Michele col cappotto di cammello e la Bibbia sempre a portata di mano. L’uomo che veniva dalla campagna, anzi dal feudo e precisamente dai 130 ettari di Verbumcaudo passati di proprietà - come spesso accadeva all’epoca in cui spadroneggiava la mafia dei gabelloti - dai nobili Tagliavia ai fratelli Michele e Salvatore Greco, il primo detto il ”papa” per l’autorevolezza delle sue decisioni, l’altro chiamato ”il senatore” per le frequentazioni politiche, prima coi monarchici, poi coi democristiani. Facevano a gara, a Palermo, per ottenere la attenzioni di don Michele. La sua tenuta di Favarella, macchiata dal sospetto che nascondesse una raffineria di eroina, era mèta di ricchi, politici e professionisti. Oltre che di mafiosi di antico lignaggio. Fu lo stesso ”papa” ad ammettere, al maxiprocesso, di aver visto il boss di Santa Maria del Gesù, Stefano Bontade, proprio la sera prima che quello fosse ucciso, inaugurando una sanguinosa guerra di mafia. Ma queste ammissioni erano parte del gioco: il gioco della pantomima del quieto vivere che in Sicilia si mette in scena da secoli. Tutti sanno tutto di tutti, ma nessuno sa ”veramente” fino alla sentenza della Cassazione. Poi va in scena la rappresentazione della sorpresa: ”Ma chi poteva immaginare che fosse un mafioso!”. Potevano immaginare, i facoltosi soci del circolo del ”Tiro a volo”, abituali frequentatori dei palazzi in stile Liberty, che don Michele dirigesse la ”cupola” mafiosa già all’inizio degli Anni Settanta? Lo vedevano dialogare amabilmente con baroni, editori, grandi avvocati, professori della medicina e persino prefetti e magistrati, e questo bastava. Stessa sorpresa dimostrarono, per esempio, i nobili Inglese e Tasca quando Giovanni Falcone scoprì che la sigla della ”Grinta” (concessionaria Honda) altro non era che l’insieme delle iniziali dei tre soci: Greco, Inglese e Tasca. Ma don Michele allora era uno stimato coltivatore di agrumi della Conca d’Oro. Già, i mandarini. I famosi ”tardivi” di Ciaculli, così chiamati perché maturano in ritardo, addirittura in marzo. Sono sempre stati il vanto di don Michele. Nel ”92 il boss accettò di farsi riprendere dalle telecamere, ma a condizione che ciò accadesse sotto i suoi preziosissimi ”marzulini” con la buccia verde. Il ”papa” era stato scarcerato per decorrenza dei termini, insieme con altri 42 boss. Giovanni Falcone corse ai ripari e convinse l’allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli, ad emettere un decreto che ponesse rimedio alla ”svista” dei magistrati. Ma prima di tornare in carcere, don Michele, si sfogò con Lino Jannuzzi che lo intervistava per ”Italia Uno”. ”Dottore mio - recitava accorato, accarezzando i suoi amati mandarini - mi chiedo ancora in che cosa ho mafiato io. Ecco, dottore, questa è la mia mafia. Lavoro e fede in Dio”. Una recita portata avanti anche dalla moglie, Rosa Castellana, che una mattina (il ”papa” era tornato in carcere) aprì le porte di casa e fece entrare i giornalisti, ospitandoli in un austero salotto borghese. Al momento del commiato chiese: ”Vi sembra, questa, la casa di un mafioso?”. Aveva la passione del cinema, don Michele. Passione trasmessa al figlio, Giuseppe, che si è cimentato nella regia di una pellicola (Panna, cioccolata e paprika, Franco Franchi e Barbara Bouchet), per la verità diventata famosa solo dopo le vicende giudiziarie. Ma Giuseppe non ha abbandonato l’arte ed ha prodotto e diretto altri due film, di ambientazione mafiosa, uno dei quali (La saga dei Grimaldi) sembra essere la storia del padre, o meglio quella che vogliono fare passare per la storia del padrino buono. Tutto diverso da Totò Riina, il corleonese sanguinario che però - come ha raccontato Tommaso Buscetta - conquistò la mafia palermitana anche grazie al tradimento del ”papa”, per lungo tempo ”burattino” nelle mani dei corleonesi. vero, era mellifluo anche nel sorriso, don Michele. E nelle minacce: a Falcone disse: ”Lei è il Maradona dei giudici, per strapparle la palla bisogna farle lo sgambetto”. Alla Corte del maxiprocesso che andava in camera di consiglio, ricorda il procuratore Piero Grasso, allora giudice a latere, affidò l’invito a ”decidere secondo coscienza”. E concluse, citando le parole della Bibbia e augurando ”la pace”. Un invito che sembrò molto sinistro» (Francesco La Licata, ”La Stampa” 14/2/2008).