Corriere della Sera 13 febbraio 2008, Paola De Carolis, 13 febbraio 2008
Ventisette attori sul palco: va in scena il grande silenzio. Corriere della Sera 13 febbraio 2008. Da quando Nicholas Hytner ne ha rilevato la direzione artistica, il National Theatre ha spesso sorpreso con scelte innovative e controverse, eppure la decisione di allestire The hour we knew nothing of each other (L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro), di Peter Handke, ha suscitato ugualmente scalpore
Ventisette attori sul palco: va in scena il grande silenzio. Corriere della Sera 13 febbraio 2008. Da quando Nicholas Hytner ne ha rilevato la direzione artistica, il National Theatre ha spesso sorpreso con scelte innovative e controverse, eppure la decisione di allestire The hour we knew nothing of each other (L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro), di Peter Handke, ha suscitato ugualmente scalpore. L’atto unico prevede l’arrivo sul palcoscenico di 450 personaggi interpretati da 27 attori. Nessuno di loro pronuncia una parola. Un’ora e 45 minuti di silenzio. Non è danza, non è mimo, non è teatro fisico, è teatro diluito alla sua essenza, che, a sentire Handke, austriaco, tra i maggiori scrittori di lingua tedesca contemporanei, è proprio quella di «guardare gli altri». Ecco dunque una sfilata di personaggi che vanno dal prevedibile, all’astruso, al mitologico: funzionari, ragazzi con i pattini ai piedi, un cowboy, netturbini, una sposa che insegue il velo, una troupe televisiva, un anziano, un turista, Abramo e Isacco, una famiglia di profughi, il pazzo del paese. Non si conoscono, non si parlano, eppure per un momento fanno parte della stessa tribù. In comune hanno la vicinanza fisica, l’essere capitati, contemporaneamente, nella stessa piazza. Una trama precisa non c’è, ma ciò non vuol dire che non ci siano storie. Ogni personaggio ne ha una, anche se entra ed esce di scena in pochi secondi. L’assenza di dialogo non impedisce al pubblico di usare l’immaginazione. questo processo di osservazione, dopotutto, ad aver ispirato Handke, che collega la pièce a una giornata trascorsa in un bar di Muggia, vicino a Trieste, nel maggio 1992. «Mi sono seduto in terrazza a guardar scorrere la vita. Sono entrato in un profondo stato di concentrazione, forse aiutato dal vino. Ogni piccola cosa è diventata importante, significativa. Dopo tre o quattro ore è arrivato un carro funebre, si è fermato davanti a una casa, un uomo è sceso ed entrato, ne è uscito con un feretro. Si è raccolta una piccola folla di curiosi, quando l’auto è partita la gente se ne è andata e la piazza è tornata alla sua normalità. Il viavai di gente normale, i turisti, nessuno sapeva cosa fosse successo prima, eppure per me ogni piccolo evento era colorato da quello che avevo visto. Mi sembravano un gruppo di sculture che, pur senza conoscersi, si plasmano a vicenda». Se non hanno faticato a imparare le battute, gli attori scelti dal regista James Macdonald hanno dovuto affrontare sfide di altro tipo. «Generalmente – racconta Richard Hope – un attore cerca l’arco del suo personaggio, l’istinto è di completare una storia, qui non è possibile, nessun personaggio è completo. Devi costruire qualcosa per trenta secondi e poi buttarlo via». E in fretta: Hope ha 25 cambi di costume per altrettanti personaggi. Susan Brown sottolinea che spesso la tentazione è di «dire o mostrare troppo, invece è meglio lasciare che sia il pubblico a immaginare i particolari». Giles Terera, da quando ha cominciato a prepararsi per la piece di Handke, non riesce a smettere di guardare la gente: «Se riesci ad aprire veramente gli occhi, a guardare davvero, vedi cose sorprendenti». A Londra, città che non si stanca mai di provare cose nuove, l’interesse è tale che il National Theatre ha prolungato lo spettacolo sino all’11 aprile. L’appuntamento con la critica è stasera, ma Handke, che a polemiche e controversie non è nuovo, sicuramente non è preoccupato. Paola De Carolis