L’espresso 14 febbraio 2008, Alessandra Viola, 14 febbraio 2008
Nello spazio con i plantoidi. L’espresso 14 febbraio 2008. Il robot del futuro avrà le foglie. Non più occhi e braccia come i nostri emuli robotici, gli androidi, e neppure zampe e ali come i robot di ispirazione animale della penultima generazione
Nello spazio con i plantoidi. L’espresso 14 febbraio 2008. Il robot del futuro avrà le foglie. Non più occhi e braccia come i nostri emuli robotici, gli androidi, e neppure zampe e ali come i robot di ispirazione animale della penultima generazione. Il plantoide sarà in tutto simile a una pianta, con tanto di foglie e radici. Ovviamente robotici. Ispirato in ogni sua parte al funzionamento degli organismi vegetali, questo prototipo di macchina intelligente è il frutto di uno studio di fattibilità da poco portato a termine dalla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e dal Laboratorio di neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze (Linv), su commissione dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Obiettivo: progettare nuovi robot capaci di esplorare pianeti lontani a costi ridotti e con prestazioni quasi garantite. Dimenticate i rover, le macchine con sei ruote motrici utilizzate per le prime missioni su Marte. Lo scenario di un imminente futuro potrebbe essere radicalmente diverso. Niente più robot costosi, capaci di muoversi poche centinaia di metri in tempi piuttosto lunghi. Pensate invece a un grande pallone contenente molti semi robotici, aperto nell’atmosfera arancione di Marte. Tante piccole palline che si disperdono sulla superficie e poi, proprio come un seme, mettono radici e fanno spuntare le prime foglioline. Quindi, alimentandosi con l’energia ricavata dai pannelli solari, iniziano a crescere esplorando il terreno con le radici robotiche, e nel frattempo rilevano e trasmettono a una pianta-madre (che poi li invia sulla Terra) i dati relativi a decine di parametri chimici e fisici. Un’analisi molto più dettagliata di quelle attualmente possibili, a un costo circa dieci volte più basso e con meno possibilità di incidenti, perché la rottura o il non funzionamento di un plantoide non comprometterebbe l’intera missione. "Il plantoide potrà indagare il sottosuolo molto meglio di carotaggi e campionamenti", spiega Barbara Mazzolai, ricercatrice del Centro di ricerche in microingegneria della Scuola Sant’Anna, che ha coordinato il progetto insieme al Laboratorio di robotica, "e potrà essere usato anche sulla Terra come stazione permanente di monitoraggio, un po’ come già si fa con le centraline per il rilievo dell’aria e dell’acqua. Delle piante ci interessa in particolare la capacità di ancorarsi al suolo con le radici, e poi la modalità capillare dell’esplorazione del terreno per estrarne sali minerali, nutrienti e acqua. La nostra pianta-robot, in base al prototipo attualmente disponibile, emergerà dal terreno 4 o 5 centimetri, e nella parte superiore avrà l’equivalente robotico delle foglie: celle fotovoltaiche orientabili. Questa parte attualmente è quella che ci interessa meno, e per ora il suo unico scopo sarà quello di produrre energia. In futuro però torneremo a occuparcene: potrebbe essere dotata di altri ricettori, per esempio per l’analisi di parametri atmosferici. Nella parte inferiore, il plantoide avrà invece radici robotiche munite di sensori e capaci di muoversi nel terreno grazie a un sistema osmotico, che consentirà un direzionamento ragionato in base ai dati rilevati dagli apici. Il sistema osmotico è lento, quindi necessita di poca energia e consente rilievi approfonditi. Le radici potranno crescere fino a circa mezzo metro, espandendo dei moduli. Una misura considerata già interessante, anche se da marzo e per circa tre mesi riprenderemo a lavorare sull’accrescimento, con l’obiettivo di mettere a punto un ibrido: una pianta cyborg in parte meccanica e in parte organica che grazie alla presenza di cellule vegetali possa crescere anche molte volte oltre la misura predeterminata". I risultati degli studi condotti verranno presentati ufficialmente all’Esa a febbraio, prima di essere divulgati alla comunità scientifica in occasione del congresso Biological approaches for Engineering che si terrà dal 17 al 19 marzo all’Università di Southampton in Inghilterra. Dopo lo studio di fattibilità, il prossimo passo sarà quello di mettere in produzione il plantoide. Il cammino per poterlo effettivamente vedere impegnato nell’esplorazione spaziale è ancora lungo, ma potrebbe vedere coinvolte sia l’Esa sia la Nasa. Uno dei punti di maggiore appeal dell’intero progetto è nella capacità di ’ancoraggio’ del robot al suolo, una delle caratteristiche più ricercate nello spazio, soprattutto nell’ipotesi di esplorazioni di pianeti a ridotta gravità rispetto alla Terra (tra i quali per esempio Marte). Intanto, cofinanziata dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova, la ricerca italiana mira ad approfondire le applicazioni robotiche dei risultati ottenuti dal Linv dell’Università di Firenze in collaborazione con l’Università di Bonn, nell’ambito delle neuroscienze applicate alle piante. "Da Aristotele a oggi si è pensato che le piante, essendo organismi sessili, cioè residenziali, a differenza degli animali non avessero sviluppato organi di senso", spiega Stefano Mancuso, direttore del Linv: "Al contrario, abbiamo scoperto che proprio l’impossibilità di muoversi ha obbligato gli organismi vegetali a dotarsi di particolari capacità, come quelle di analizzare numerosi parametri chimici e fisici del terreno, di reagire ad essi e persino di comunicare con altre piante della propria specie in caso di pericolo". L’apparato di senso vegetale, in base agli studi condotti dal Linv, si trova nell’apice delle radici. Da lì le piante ’sentono’ e reagiscono alla gravità, alla luce, alla temperatura, ai nutrienti del terreno, ad eventuali elementi tossici. "Attraverso le vibrazioni del terreno percepiscono persino i rumori, proprio come fanno anche gli animali senza orecchie, tipo i serpenti", continua Mancuso: "Le piante inoltre sono organismi pionieri: i primi organismi viventi capaci di colonizzare terreni sterili, per esempio quelli lavici. Usarle per esplorare altri pianeti appare estremamente interessante. Finora i robot per l’esplorazione del sottosuolo erano stati ispirati a modelli animali, per esempio alla talpa. Ma scavare non è sempre il modo adatto per trovare qualcosa, anche perché scaldando il terreno durante il processo di scavo, il robot rischia di uccidere proprio le forme di vita che sta cercando. Le piante sono più lente e accurate nel loro processo di esplorazione, e mentre penetrano nel terreno lo analizzano per capire come orientarsi. La radice degli organismi vegetali è dotata di una vera e propria capacità di calcolo. Non si può chiamare cervello, ma è certo che anche nelle piante alcuni neurotrasmettitori come glutammato, acetilcolina, dopamina, serotonina e melatonina funzionano in modo analogo che negli animali. L’intero apparato per il trasporto del segnale da una cellula all’altra, che negli animali è composto da sinapsi e neuroni, è in gran parte conservato nelle piante. Dal punto di vista pratico queste scoperte aprono prospettive entusiasmanti: tutto lo studio cellulare sulla neurotrasmissione può in parte essere condotto su cellule vegetali, in maniera più semplice ed anche eticamente più accettabile che sugli animali, perché il network elettrico vegetale è simile a quello dei sistemi neurali. Persino i test di biologia cellulare, come quelli di tipo farmaceutico, potrebbero essere efficacemente condotti sulle piante. L’esplorazione di pianeti lontani è solo il primo passo". Alessandra Viola