Il Giornale 11 febbraio 2008, Marcello Pera, 11 febbraio 2008
Pannunzio, un vero liberale che fu vittima del Risorgimento. Il Giornale 11 febbraio 2008. Ne La democrazia in America (1835), Alexis de Tocqueville scriveva: «Non è soltanto per soddisfare una curiosità, d’altronde legittima, che ho studiato l’America, ma per trovarvi degli insegnamenti da cui noi si possa trar profitto»
Pannunzio, un vero liberale che fu vittima del Risorgimento. Il Giornale 11 febbraio 2008. Ne La democrazia in America (1835), Alexis de Tocqueville scriveva: «Non è soltanto per soddisfare una curiosità, d’altronde legittima, che ho studiato l’America, ma per trovarvi degli insegnamenti da cui noi si possa trar profitto». E il principale profitto era questo: «Avevo visto lo spirito di religione e lo spirito di libertà procedere in Francia quasi sempre in senso contrario. Qui, li ritrovai intimamente uniti l’uno all’altro: regnavano insieme sullo stesso suolo». Ciò era vero nell’Europa di allora e fu vero in seguito. Vero ma tragico. Se l’America non ha avuto i totalitarismi europei e l’Europa ha avuto i dispotismi e perduto più volte democrazia e libertà, non è forse perché la tesi di Tocqueville - che la democrazia non minaccia la libertà solo se la società mantiene un vincolo religioso - era corretta? C’è nella Democrazia in America una riflessione che non poteva dispiacere a Mario Pannunzio e che oggi non dovrebbe dispiacere ai liberali come lui. Confrontando il ruolo sociale della religione in America con quello in Europa, Tocqueville si chiede: «Perché questo quadro non è applicabile a noi?». E si risponde: perché esiste una «causa accidentale» o una «causa particolare». Si tratta della «intima unione della politica e della religione . In Europa il Cristianesimo ha permesso che lo si unisse intimamente alle potenze terrene. Oggi queste potenze cadono, ed egli è come sepolto sotto le loro rovine. un vivente che hanno voluto legare a dei morti: tagliate i legami che lo trattengono, ed egli si rialzerà». Davvero Tocqueville auspica la separazione fra religione e politica? Davvero raccomanda una ricetta che è palesemente antiamericana, dal momento che, per ammissione dello stesso Tocqueville, in America questa seconda separazione non c’è? E se così fosse, come si potrebbe risolvere il suo stesso problema: «Che fare di un popolo padrone di se stesso, se non è sottomesso a Dio»? Non penso che Tocqueville raccomandasse la separazione fra religione e politica. Né penso che questa raccomandazione sia da accogliere. Penso piuttosto che Tocqueville avesse ragione nel dire che in Europa per troppo tempo un vivente (l’altare) si è legato a dei morti (il trono) e penso anche che, alla fine, i morti abbiano seppellito i morti. La separazione fra Stato e Chiesa non implica la separazione fra religione cristiana e politica, almeno non la implica in una società e in uno Stato liberali. La prima separazione è doverosa, perché sorregge l’autonomia della sfera statale da quella ecclesiale; la seconda è pericolosa, perché mette a rischio gli stessi fondamenti della libera sfera statale e la stabilità della società civile. L’una riguarda i regimi istituzionali, l’altra riguarda la nostra libertà. Soltanto un paese come l’Italia, che non supera la memoria dello sforzo anticlericale compiuto per ottenere la separazione Stato-Chiesa, e ha triste ricordo della tenacia clericale che cercò di negarla, può pensare di accompagnare alla separazione Stato-Chiesa la separazione religione-politica. Evitare che ciò avvenga è per me un compito anche dei laici, soprattutto dei laici liberali. Applicata alle istituzioni, la laicità comporta piena autonomia dello Stato, ma, per quanto riguarda lo Stato liberale, non comporta né estraneità né rifiuto dei valori del cristianesimo. A che cosa i liberali potrebbero appendere la loro stessa fede liberale o con che cosa potrebbero nutrire la loro stessa religione della libertà? Su che cosa potrebbero basare la cultura dei diritti umani fondamentali ora scritti nelle Carte internazionali? La religione della libertà di Croce non serve affatto, perché vola così alto che, da quella distanza, le sembra di vedere la libertà all’opera persino nei gulag e nei lager. Il «principio liberale» di J.S. Mill favorisce sì la libertà dei singoli ma, nell’epoca dell’individualismo, dell’eudemonismo e della bioetica, disgrega la società. Il liberalismo politico di Rawls «mette tra parentesi» tutte le dottrine del bene e tutte le religioni, compresa quella a cui il liberalismo è legato. Quanto al «patriottismo costituzionale» di Habermas, che vuol essere strumento di democrazia e di inclusione, è invece, nell’epoca della rinascita virulenta dell’islam, l’ultimo ritrovato laicista per la resa della nostra civiltà. «Scegliere» la ragione non è opera della ragione. Occorre una fede. Ma se è una fede rivelata, allora questa è il cristianesimo, la religione del Logos. Se invece è una fede non rivelata, allora essa arriva alle stesse conclusioni del cristianesimo: l’uguaglianza di tutti gli uomini, la responsabilità individuale di ciascuno, la dignità di ogni individuo in quanto persona, l’unità del genere umano. Su questi assiomi si basa il liberalismo. Come scrisse Tocqueville /, «fu necessario che Gesù Cristo venisse sulla Terra per far capire che tutti i membri della specie umana erano per natura simili e uguali». Credo che questi assiomi del liberalismo noi oggi dobbiamo riprenderli con umiltà e riconsiderarli con serietà. Abbiamo alle spalle le tragedie immani dei totalitarismi europei, quando l’Europa, che sembrava avviarsi sulla strada dell’America nel coniugare libertà e uguaglianza, rifiutò i valori della civiltà cristiana e ritornò pagana; quando confidava nella Provvidenza laica della libertà e precipitò nella dittatura; e quando consumò per intero «il dramma dell’umanesimo ateo». Abbiamo di fronte una sfida di civiltà, che cerchiamo colpevolmente di esorcizzare perché non ci riesce responsabilmente di affrontare. Le circostanze non ci sono benigne. Siamo vittime della memoria storica e prigionieri di gabbie che hanno recinto in cagnesco i liberali da un lato e i credenti dall’altro. Ce lo ricorda la stessa vicenda di Pannunzio e di molte belle menti del Mondo - da Salvemini a Rossi a Calogero a Antoni - ai quali tante volte la doverosa polemica a difesa dello Stato laico contro l’invadenza della Chiesa fece premio sul riconoscimento del legame fra liberalismo e cristianesimo, al punto che quelle stupende intelligenze furono ingenerose di riconoscimenti alla Chiesa, e alla Democrazia cristiana, per il contributo da esse dato nel 1948 alla sconfitta del comunismo. Il dato, amaro ma ineludibile, è che siamo una nazione che si è fornita di uno Stato appena ieri, in polemica e in guerra con sé e la Chiesa. E abbiamo avuto una Chiesa che tante, troppe volte si è mostrata in ritardo sulla modernità, sul liberalismo, sulla democrazia, sulla laicità, sacrificando e mortificando talora le migliori coscienze degli stessi cattolici. Anche Pannunzio, i suoi e molti altri liberali ne sono stati vittime. Si trovarono a combattere il clericalismo e non riuscirono ad utilizzare niente di meglio dei vecchi strumenti risorgimentali. Di questa situazione abbiamo sofferto tutti e ne portiamo ancora i segni, a cominciare da quella nostra Costituzione repubblicana che all’articolo 1 dice che l’Italia non è una Repubblica fondata sulla libertà ma sul «lavoro», all’articolo 3 si fa compito di garantire «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», e all’articolo 7 non coniuga lo spirito di libertà e lo spirito di religione, come avrebbe voluto Tocqueville, ma sancisce un concordato, persino un commercio, fra due istituzioni terrene. Ci viene ancora spontaneo ripetere in modo irriflessivo la vecchia formula risorgimentale «liberali, e quindi anticlericali», come se tra cristianesimo e liberalismo ci fosse opposizione ontologica. E ci viene più naturale dividerci fra clericali e anticlericali - «collitorti» e «mangiapreti», come si diceva ieri, o «teocon» e «laicisti», come si dice oggi - che ripensare le vecchie e non più adatte categorie intellettuali che abbiamo bevuto col latte materno. Così, ciò che è accaduto rischia di ripetersi, in farsa e tragedia. Ci occorrerebbero liberali «di tipo nuovo», come Tocqueville diceva di se stesso. Ma la crisi della nostra cultura liberale ci fa dimenticare persino quelli di tipo antico. Nell’introduzione a La democrazia in America, Tocqueville descrisse il dramma della sua epoca con parole lapidarie: «Gli uomini di fede combattono la libertà, e gli amici della libertà attaccano la religione». E aggiunse: «I partigiani della libertà / hanno visto la religione schierata contro i loro avversari, e questo è loro bastato». Senza saperlo, Tocqueville descriveva Pannunzio, gli intellettuali del Mondo e tanti esponenti della cultura liberale contemporanea: anche loro pensavano che bastasse. Per più di un secolo l’anticlericalismo è stato un fenomeno di reazione, oggi è un movimento di aggressione. Le circostanze stanno cambiando, molto - va detto onestamente e con gratitudine - ad opera di un Papa (Benedetto XVI) che più di altri suoi predecessori si è mostrato attento e aperto alle ragioni della cultura laica. / Istruiti, anziché armati, dalla memoria, dovremmo / fermarci per tempo. Perché o noi ci adoperiamo per costruire un’alleanza fra «amici della libertà» e «uomini di fede», come li chiamava Tocqueville, oppure non solo il nostro liberalismo come dottrina e i nostri Stati liberali come istituzioni, ma anche la nostra intera civiltà andrà incontro ad un altro dramma. Marcello Pera