La Repubblica 11 febbraio 2008, ANNA OTTANI CAVINA, 11 febbraio 2008
Una promenade nel paesaggio. La Repubblica 11 febbraio 2008. Poussin, pittore solitario e grandissimo, estraneo alla sensualità del barocco, appare per la prima volta nella sua toccante bellezza di pittore della natura: soltanto paesaggi, che al tempo della giovinezza hanno i colori smaltati della fiaba e del mito e poi le intonazioni accorate che accompagnano il destino misterioso dell´uomo
Una promenade nel paesaggio. La Repubblica 11 febbraio 2008. Poussin, pittore solitario e grandissimo, estraneo alla sensualità del barocco, appare per la prima volta nella sua toccante bellezza di pittore della natura: soltanto paesaggi, che al tempo della giovinezza hanno i colori smaltati della fiaba e del mito e poi le intonazioni accorate che accompagnano il destino misterioso dell´uomo. Di un artista, che nell´area di Roma ha condotto l´intera esistenza, è possibile misurare lo scarto fra i luoghi quotidianamente vissuti e i luoghi che lui ha dipinto? A quali principi obbediva, in tema di paesaggio, il processo di depurazione dai segni del tempo e dai segni del lavoro dell´uomo se Poussin ha espresso nel modo più profondo il sentimento misterioso e panico della natura? Quel sentimento, scriveva Cézanne, che gli aveva permesso di fondere «le curve delle donne con le spalle delle colline». I paesaggi dipinti sono fatalmente paesaggi di idee, non lo specchio di luoghi vissuti. Eppure è così forte, nella storiografia di Poussin, nelle fonti e nella leggenda, il leitmotiv della campagna romana, percorsa a piedi e a cavallo, da solo e con gli amici, da meritare qualche riflessione, se tutto questo ha avuto più tardi una cristallizzazione figurativa nella famosa Promenade de Poussin lungo le rive settentrionali del Tevere. Famosa soprattutto per l´interpretazione che ne ha dato Corot nel dipinto oggi al Louvre. Risalendo il corso del Tevere, che a Roma entra dalle parti di Ponte Milvio, si incontrano i luoghi della Promenade de Poussin. A nord della città, il sentiero, raccontato con emozione anche da Goethe, costeggiava il fiume lungo le rive dell´Acqua Acetosa, nella zona di Tor di Quinto, non lontano dalla via Flaminia. Attraversava un paesaggio di pascoli, macchie arboree, acquitrini, rari campi coltivati aperti, secondo le forme di un sistema agrario che contemplava i campi e l´erba e dove - in pieno Seicento - il pascolo brado aveva preso il sopravvento sui terreni plasmati dal lavoro dell´uomo. Il degrado dell´Agro Romano, riconquistato dalla palude e dalla malaria, rientrava infatti, al tempo di Poussin, in un più vasto processo di rifeudalizzazione della società italiana che favoriva il regresso verso il latifondo, verso un regime di pascoli, selve, acquitrini. Inospitale e deserto, l´Agro Romano era molto vicino a quello che Gaspard Dughet ha raffigurato negli affreschi di San Martino ai Monti, ambientando le vicende dei profeti entro scenari grandiosi dove uomini e bufali si affannano nella fatica primordiale di conquistare terreni paludosi e ingrati. Il paesaggio dipinto da Poussin invece non voleva essere lo specchio del vero, anche se il pittore aveva frequentato e amato quei luoghi nell´arco dell´intera esistenza. Non è il paese reale, contemporaneo, quello su cui si stagliano le storie di Focione, di Diogene, di Orfeo e Euridice, di Piramo e Tisbe, dei ciechi di Gerico. La natura in Poussin non si ispira alle lande malsane e desolate, che si profilavano oltre le porte di Roma e nemmeno alle terre lavorate del paesaggio agrario italiano. Tendeva piuttosto alle forme ritmate e intatte di un paesaggio elegiaco, ideale. Basterebbe una ricognizione botanica, anche molto sommaria, per sancire il distacco di quegli scenari dipinti dalle colline italiane popolate di viti e di ulivi, e dalle pianure del Lazio solcate da pioppi, cipressi, pini marittimi. Poussin non riflette la varietà delle speci che caratterizzano la campagna romana. Riproposto in numerose varianti, l´albero dominante è decisamente la quercia, raffigurata nella magnitudine del suo portamento o nella fragilità dei virgulti flessibili al vento. Una quercia naturale, non potata, riconoscibile nella chioma sontuosa ed espansa e nelle foglie dentate, che il pittore raffigura con qualche libertà, perché lo sguardo di Poussin non è quello di un naturalista e il suo livello di definizione non è quello della cultura scientifica, fondata sulla ricognizione analitica, sull´esattezza della percezione, sulla organizzazione dei dati rilevati dall´occhio. Del tutto insensibile alla varietà della macchia mediterranea, la natura di Poussin è costruita sull´iterazione di un albero, utilizzato per il suo forte impatto visivo e per la sua valenza simbolica. Sacra a Giove, la quercia evocava la forza, la virtù eroica e invincibile. Presenza tangibile del divino nella natura, strumento di comunicazione fra il cielo e la terra, la quercia poteva vantare una tradizione di nobili preferenze pittoriche, da Annibale Carracci a Domenichino. Se dunque i paesaggi di Poussin non reggono a un esame di realtà, nella loro bellezza e vastità dovevano assolvere a una funzione diversa e più alta. Non quella di sfondo modellato sul paese reale, ma quella di commentario alla storia dipinta, nonostante che, come molti pittori del Seicento, Poussin fosse mosso dal bisogno di conoscere la natura dal vivo. Lo testimoniano i suoi studi dal vero e il reportage citatissimo di un viaggiatore francese: «... Poussin... l´ho visto portarsi via in un fazzoletto dei sassi, del muschio, dei fiori e altre cose che egli intendeva dipingere esattamente dal vero». Ma non è questo il canone che regola la rappresentazione della natura in Poussin, per il quale l´esperienza visiva era inscindibile dai principi ordinatori dell´arte, dalla tensione a regolarizzare le forme. Pertanto la poesia di un luogo reale e mutevole, disegnato sul posto, viene sintetizzata sulla tela nelle forme laconiche e ricorrenti di un lessico universale, dove le costanti dei fenomeni diventano paradigmi di un alfabeto che interpreta la Natura come un insieme razionale e organico: «L´Ordine è il padre della Bellezza». questo lo stigma che impronta la visione della natura in Poussin, tesa a ricondurre le varianti della realtà entro i tracciati ordinati del pensiero. Una natura lontanissima dai luoghi vissuti, dai luoghi dove si abita e si lavora, dai luoghi raccontati per così dire dal basso, dalla piazza o dai campi. Prospetticamente ordinati lungo un asse il più delle volte centrale, i paesaggi dipinti da Poussin attingono una dimensione eroica e fuori dal tempo nella scansione orizzontale dei piani, ritmati dalla presenza maestosa delle querce. Le grandi querce servono a strutturare lo spazio, a contrastare l´ombra e la luce, ad ambientare il soggetto nei "modi" che gli antichi associavano alla sfera morale e a quella delle passioni. all´interno di quella cornice simbolica che gli alberi, come le architetture, assecondano una chiave di volta in volta veemente, furiosa, austera, grave, cui la quercia offre una sagoma ciclica e ricorrente, forma quintessenziale che riassume e sublima ogni specie di albero. Si riconferma una lettura ideale e filosofica del paesaggio in Poussin, dove il punto essenziale non è misurare la capacità di "ritrarre" la natura che stava intorno a Poussin, ma valutare piuttosto come quei luoghi, che nessuno prima aveva dipinto, nessuno dopo ha potuto vedere con occhi diversi da quelli carichi di irrealtà (ma pieni di poesia) di un pittore che, en promenade nella desolazione dell´Agro Romano, aveva "inventato" - nel quadro di Berlino - la religiosa bellezza dell´Acqua Acetosa in contrappunto alla religiosa intimità dell´angelo e di Matteo. ANNA OTTANI CAVINA