La Stampa 11 febbraio 2008, PABLO TRINCIA, 11 febbraio 2008
Il Brahmaputra divora i templi sacri a Vishnu. La Stampa 11 febbraio 2008. I geografi indiani amano definirla «l’isola fluviale più grande del mondo»: un lembo di terra impregnato di fascino e misticismo, che spunta tra le correnti del potente Brahmaputra deviandone il corso, nello Stato nord-orientale dell’Assam
Il Brahmaputra divora i templi sacri a Vishnu. La Stampa 11 febbraio 2008. I geografi indiani amano definirla «l’isola fluviale più grande del mondo»: un lembo di terra impregnato di fascino e misticismo, che spunta tra le correnti del potente Brahmaputra deviandone il corso, nello Stato nord-orientale dell’Assam. Ma il riscaldamento globale, le inondazioni e un destino avverso rischiano di trasformarla in un semplice ricordo. Se i pessimisti avessero ragione, nel giro di un ventennio quella di Majuli potrebbe diventare «l’isola che non c’è». Una piccola Atlantide sommersa dalla furia delle acque, che dalla metà del secolo scorso non danno tregua ai suoi 140 mila abitanti, costretti a convivere in un’area che diminuisce a vista d’occhio. Dal 1990 a oggi ben 35 villaggi sulle sue rive sono stati cancellati da un’erosione che gli scienziati attribuiscono al graduale scioglimento dei ghiacci himalayani (da dove nasce il fiume) e al conseguente innalzamento delle acque. Un fenomeno simile a quello che ha colpito molte altre isole e arcipelaghi (dalle Maldive, nell’Oceano Indiano, a Tuvalu, nel Pacifico), ma che da queste parti ha impressionato per la velocità con cui ha agito. Nel 1950 l’isola di Majuli occupava un’area di oltre 1200 chilometri quadrati. Oggi ne misura 422, appena un terzo. Molti abitanti, la maggior parte dei quali discende dalle popolazioni tribali Mishing dell’Arunachal Pradesh, hanno perso terreni e proprietà, e oggi sopravvivono con lavoretti saltuari. Se l’erosione continua, presto dovranno lasciare l’isola. Ma non potranno portare via con sé gli oltre trenta satras – i celebri monasteri, dove da secoli si recitano i mantra della tradizione Vaishnavita dell’induismo – che andrebbero perduti insieme a numerose collezioni di scritture sacre di inestimabile valore. Oltre a segnare la fine di lingue e culture locali, che hanno affascinato antropologi e sociologi, e che sono sopravvissute, grazie all’isolamento, ai cambiamenti della storia. Per non parlare di rare specie animali e vegetali che nel corso dei secoli si sono sviluppate sul territorio. L’unico legame con il resto del mondo è un battello che attraversa il fiume un paio di volte al giorno. Per questo le autorità locali hanno deciso di sfidare le correnti del Brahmaputra a colpi di burocrazia, inviando all’Unesco, la settimana scorsa, la richiesta di attribuire all’isola lo status di «patrimonio dell’umanità». L’India spera di riuscire a convincere l’agenzia Onu a far rientrare Majuli nella categoria dei «paesaggi culturali». Se ci riuscisse, arriverebbero fondi e aiuti esterni. «In questo modo ci sarebbe un piano d’azione coordinato», ha detto al quotidiano britannico «The Independent» Diganta Gogoi, del Consiglio per lo sviluppo e la protezione di Majuli. «Lo Stato e le autorità federali a quel punto sarebbero costrette a intervenire per prevenire l’erosione». All’Unesco fanno sapere che aspettano dal governo indiano una strategia ingegneristica dettagliata per salvare l’isola. La commissione dei 21 Paesi membri si riunirà in Canada nel giugno di quest’anno per prendere una decisione. Conoscendo la proverbiale lentezza e l’inefficienza dell’obsoleta macchina burocratica indiana, le cose potrebbe protrarsi ancora a lungo. Dopotutto l’emergenza non è cominciata ieri. «Ci rendiamo conto dell’immensità del problema, ma anche il governo centrale dovrebbe prendere provvedimenti per salvare quest’isola», aveva detto un rappresentante del governo locale alla Bbc nel corso di un’intervista già cinque anni fa. Chi, in passato, ha cercato di portare la storia di Majuli all’attenzione dei media, non è stato ascoltato. O ha fatto la fine di Sanjoy Ghosh. Nel 1996, questo attivista di una ong locale aveva mobilitato trentamila persone per proteggere un piccolo lembo di terra dall’erosione. Un anno dopo, alcuni sicari dell’Ulfa – l’organizzazione terroristica che dalla fine degli Anni 70 chiede, a colpi di attentati e omicidi, la separazione dell’Assam dall’India – lo hanno rapito e ucciso. Pare che Ghosh avesse scoperto un losco business tra la stessa organizzazione e alcuni proprietari terrieri dell’isola. Più di dieci anni dopo la sua morte, il governo indiano ha messo a disposizione l’equivalente di quindici milioni di euro per costruire barriere in grado di deviare il corso del fiume e rafforzare i terrapieni a rischio. Ma la lotta, finora, è stata vinta dal tempo. «Il problema è che il Brahmaputra è un fiume gigantesco - dice un portavoce del governo -. Il terreno che circonda l’isola è instabile, essendo costituito principalmente da limo alluvionale. Oltretutto in passato l’isola è stata colpita da forti terremoti, l’ultimo dei quali nel 1950, che ne hanno minato ancora di più la stabilità». Le inondazioni possono provocare nuove ondate di sfollati in poche ore. E le cronache locali parlano ormai di vere e proprie famiglie di nomadi, che si muovono senza sosta da un punto all’altro dell’isola, in cerca di un pezzetto di terra su cui costruire una baracca temporanea. Un tempo sovrana delle correnti e dei monsoni del Brahmaputra, questa gente è oggi costretta ad attendere, tra gli stenti, che le inondazioni si mangino la terra degli avi. Sulla terraferma li aspetterebbero miseria e discriminazione. Anche se, ormai, sembrano rassegnati. «Il governo indiano ha messo a disposizione di questa causa moltissimi soldi - dice Dutta Goswami, una delle autorità religiose di Majuli -, ma gran parte di questo denaro è andata sprecata. Chi doveva farlo non è riuscito a proteggere nemmeno un centimetro di terra. Se il fiume si ricaverà un varco nell’isola, i nostri templi, le nostre sacre scritture, le nostre opere d’arte andranno perdute per sempre». Il Brahmaputra (in sanscrito: figlio di Brahma) nasce a 4.700 metri sul monte Kailash, nel Tibet occidentale. Scorre, in direzione Ovest-Est e a Nord della cresta principale dell’Himalaya, in territorio cinese, dov’è chiamato Tsang-po. Aggirata l’Himalaya, piega a Sud e, col nome di Brahmaputra, attraversa l’Assam, in India, e il Bangladesh. Dopo 2.900 km, in gran parte navigabili, confluisce nel Gange in corrispondenza del delta, nel Golfo del Bengala. PABLO TRINCIA