La Repubblica 10 febbraio 2008, IRENE MARIA SCALISE, 10 febbraio 2008
Raoul Bova. La Repubblica 10 febbraio 2008. L´esistenza delle persone muta in mesi o magari anni. Quella di Raoul Bova è cambiata in dieci secondi
Raoul Bova. La Repubblica 10 febbraio 2008. L´esistenza delle persone muta in mesi o magari anni. Quella di Raoul Bova è cambiata in dieci secondi. Un lampo. stato il giorno in cui ha perso la gara di nuoto della sua vita. In quei pochi istanti ha smesso di essere l´atleta che sognava le olimpiadi ed è diventato l´attore che fa sognare le donne. L´uomo che, nel 2005, è stato incoronato il più bello d´Italia. L´idolo per cui le ragazzine, e anche le loro madri, farebbero volentieri qualche follia. Adesso Bova è tutto questo ma è anche - anzi soprattutto - un giovane padre e un marito. Nel suo ufficio arredato con il calore di una casa, a due passi da San Pietro, due bambini corrono eccitati con il cappello dei mostri Gormiti e uno zaino tra le mani. Sono Alessandro Leon e Francesco, i suoi due figli. Una giovane donna, jeans e lieve accento del nord, li riprende con fermezza. la moglie Chiara, che Raoul ha sposato otto anni fa. In mezzo a tanta confusione Bova sorride. Accarezza i bambini, bacia Chiara e si accomoda per l´intervista. Beve un caffè e racconta: «Forse tutto questo non ci sarebbe se non avessi perso quella famosa gara in piscina». Il mito ha avuto un´infanzia normale. Mamma casalinga, papà in Alitalia, due sorelle. Le origini sono calabresi ma lui è sempre vissuto a Roma. Da ragazzo era uno sportivo. Di più, un artigiano della piscina, un manovale dello stile libero. «Il nuoto è stato fondamentale, come lo è sempre lo sport per chi lo pratica da ragazzo. Forse era l´eccesso di ormoni di quell´età, la crescita che ti scombussola, la ricerca di te stesso, la prova di forza, il mondo maschile e il branco. Tanti meccanismi che si affollano in un bambino che vede all´improvviso l´universo con occhi diversi». In quella strana fase della vita, ognuno cerca di darsi un centro. Un punto fermo. Raoul lo ha avuto negli allenamenti, nella disciplina dell´atleta. «Nel microcosmo sportivo conta il sacrificio, il risultato, il miglioramento costante di te stesso. Non è una sfida con l´esterno ma con il proprio io, non frequenti le feste o le discoteche ma non t´importa perché capisci che il successo è proporzionato al tuo lavoro. Un´equazione matematica. Pensi che nella vita, se ti applichi con impegno, avrai sempre il giusto risultato e talvolta non è così». Poi, a diciassette anni, la gara più importante. Quella per qualificarsi alle olimpiadi. Un errore, un´ansia da prestazione. Meglio: una cazzata. Raoul è partito primo ed è arrivato ultimo. Ha fatto male la virata. Un attimo e le olimpiadi sono diventate una chimera. « stato psicologicamente durissimo, ero spaesato, perso. Per fortuna la famiglia mi ha aiutato, mio padre, che ha sofferto molto quando ho smesso, m´incoraggiava dicendo fai quello che vuoi tanto io ti vorrò sempre bene. Mia madre puntava alla laurea, le mie sorelle mi spingevano a fare qualche provino per le pubblicità». E così Bova, con la sua ferita di ragazzo ancora aperta, si è iscritto all´Isef. Nel tempo libero insegnava nuoto e ginnastica ai bambini e faceva qualche foto di moda. Andava sui set sempre controvoglia, perché è un timido. Nel 1992 è arrivata la selezione per Una storia italiana, la biografia dei fratelli Abbagnale per la televisione. Bova è arrivato in ritardo, senza timori e senza speranze, ed è subito piaciuto al regista. «Mi hanno voluto perché cercavano uno sportivo, il provino è stato quasi una seduta psicoanalitica in cui ho raccontato tutto di me, la mia sconfitta alle selezioni delle olimpiadi e poi, al primo ciac, c´è stato l´incontro positivo tra i miei occhi e la cinepresa. Tutta l´ansia che avevo patito è scomparsa, mi sentivo tranquillo, come se avessi di fronte il mio migliore amico. Il regista mi ha aiutato ad essere me stesso, ad inghiottire la paura di essere inadeguato all´ambiente, di non essere un professionista». Quindi la prima commedia: Cominciò tutto per caso. Un cast importante con attori come Margherita Buy e Massimo Ghini. «Avevo una parte leggera, un idraulico del paese che s´innamora di una cameriera, poi non ho più fatto commedie. Ho ricominciato negli ultimi mesi con il film uscito a fine gennaio e tratto dal libro di Federico Moccia, Scusa ma ti chiamo amore». Poi è arrivata La Piovra. Un ruolo importante, che prima di lui era stato riservato a Vittorio Mezzogiorno e Michele Placido. «Sentivo il peso della responsabilità per via degli attori importanti che mi avevano preceduto. Avevano deciso di doppiarmi. Per me fu una sconfitta e, quando tornavo a casa, mi lanciavo in una sorta di auto-corso risentendo tutti i miei vecchi film per correggere gli errori di pronuncia». Un perfezionista. Sarà per tutta quella disciplina che si porta dentro dai tempi del nuoto. E poi ancora film a cavallo tra il cinema e la televisione: Palermo Milano solo andata, Il capitano Ultimo, Francesco, La Finestra di fronte, Attacco allo Stato. Tanti lavori ma in fondo, latente, un senso di timore. Un tarlo che ti rovina l´esistenza. «Quando fai tante cose e tutto funziona, temi che possa essere in agguato lo sbaglio, il flop. Se per gli altri la normalità è il successo hai paura di deluderli, l´ansia da prestazione ti assale come un fantasma. In più mi sentivo bloccato perché mi proponevano solo televisione, il cinema italiano non mi offriva possibilità e allora ho deciso di fare il grande salto e andare in America». partito con tutta la famiglia. Prima in albergo, con le valigie sempre semipiene, poi con Chiara hanno preso una casa per tranquillizzare i bambini. «L´impatto con Los Angeles è stato fortissimo, ho ricominciato con i provini, con l´attesa delle telefonate. andata benissimo, l´America mi ha completato, come uomo e nel lavoro. Tutto quello che in Italia non è possibile a Los Angeles può succedere in pochi mesi. Non ci sono lentezze, non c´è clientelismo e capisci che il sogno americano esiste». Il suo primo film americano era Sotto il sole della Toscana. Il più visto nel 2003 dopo Lost in Translation. Poi c´è stata la parte di protagonista in Alien, i serial televisivi, gli spot pubblicitari per Gap che sono riservati a idoli come Madonna e Lenny Kravitz. Una sorta d´investitura a stelle e strisce. Ma anche a Los Angeles, per Bova, c´era un rischio in agguato. «Temevo, dopo aver lavorato nel serial What About Brian, di restare incastrato nel cliché dell´attore italiano pizza e mandolini e così, quando il produttore Pietro Valsecchi mi ha offerto Nassiriya, sono tornato in Italia. Con lui è nato un bellissimo rapporto umano e professionale, un vero percorso di crescita e oggi ho la fortuna di poter vivere e lavorare in entrambi i paesi». Chiara è percettibilmente l´anima della coppia. Una donna luminosa, volitiva, dedita alla sua famiglia ma mai debole. Certo, uno come Bova avrebbe potuto permettersi una fidanzata diversa in ogni momento. Ma lui no. Dice che una vita così non gli interessa. Anzi, non gli è mai interessata. «Ho sempre saputo che mi sarei sposato, che il mio obiettivo era il matrimonio. Ho avuto un esempio familiare fantastico, un modello importante che mi ha trasmesso la sensazione che la famiglia felice poteva esistere e che la cosa importante è trasmettere ai propri figli un´idea di amore e di unione». Lui è un responsabile per natura. Forse troppo. Il suo difetto è quello di volersi assumere responsabilità enormi e poi si lacera, si arrovella. Con i bambini è tenero ma anche fermo. consapevole di creare un vuoto, quando è via per lavoro, e una volta a casa fa di tutto per recuperare. Soprattutto è un padre che mantiene le promesse. «Alessandro e Francesco sanno che se prometto sarà così, che non saranno delusi. A volte corro via come un pazzo dai set per vederli alla partita, e quando loro mi dicono "papà sentivo che saresti venuto" mi passa la stanchezza». Aver avuto dei figli da giovanissimo lo ha aiutato a prendersi le giuste pause, a fermare il tempo. «Quando ci sono i bambini, è la scusa per rallentare, per far vedere loro il mondo. Noi abbiamo una casa in campagna con le oche, i maiali, i cani, tutti animali liberi e ogni volta mi chiedono, vogliono sapere e allora rallento per parlare con loro». I figli però sono anche una fonte di responsabilità. Devi garantirgli una sicurezza economica e non è facile perché, dice Bova, quello di attore è il mestiere più precario che ci sia. «Prima pensavo di aprire parallelamente una palestra, un circolo sportivo, poi ho capito che c´era una seconda via che mi avrebbe permesso di acquistare più credibilità come attore e dato più stabilità. Ho sentito che mi piaceva inventare, produrre, rischiare ma temevo di non avere l´esperienza e soprattutto il capitale». Tra le tante lezioni americane c´è stata quella di un producer giovane, giovanissimo. Un ragazzo molto lontano dallo stereotipo del produttore con la pancia, che ha incoraggiato Raoul. E così è iniziata una nuova avventura. «Ho capito che le cose sono cambiate, che il sistema ti aiuta, oggi puoi produrre anche senza essere ricco, basta avere le idee». Per il suo film più difficile, Io, l´altro, ha recitato e insieme prodotto. Una pellicola delicata e sorprendente: una lava di doloroso razzismo generato dalla paura degli attentati. Una personale lotta di civiltà tra due pescatori. «In realtà ho fatto quello che in termini tecnici si chiama scambio artistico: io ho lavorato gratis e il regista ha usato i soldi con cui dovevo essere pagato per produrre il film». Poi però ha sentito il bisogno di farlo in modo più strutturato. E con il film Milano-Palermo: il ritorno, ha avuto la sua occasione. «Ho iniziato un rapporto diverso di collaborazione con Mediaset, con lo stesso Valsecchi e con i manager Alessandro Salem e Guido Barbieri. Una forma sperimentale d´interazione tra piccolo e grande schermo, grazie alla quale la televisione permette al cinema di realizzarsi». Insomma Bova è uno che non si adagia sui successi. E ancor meno sui dolori. «Anch´io come tutti so cosa vuol dire toccare il fondo. Quando sbaglio, quasi mi crogiolo nella sconfitta, divento intrattabile e assaporo il malessere ma mai per lunghi periodi. Dopo lo stallo mi arriva una grossa rabbia che poi elaboro, trasformo in umiltà, e ricomincio. Diciamo che dalla sofferenza traggo la forza di risalire». Il suo più grosso difetto, sussurra, è stato, e rimane, l´ansia da prestazione. Quella che lo ha fatto fallire in acqua. «In America ho fatto dei corsi di meditazione per capire cosa non va, cosa m´impedisce d´essere libero. Dallo psicanalista invece no, non ci sono mai andato, preferisco analizzarmi da solo perché, rendendomi conto degli errori, cerco una soluzione». Anche in questo caso Bova è un disciplinato. Un militare in guerra con se stesso. Che vuole vincere la battaglia. IRENE MARIA SCALISE