Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  febbraio 10 Domenica calendario

La vita kolossal del grande dittatore. La Repubblica 10 febbraio 2008. riguardo a Herbert von Karajan sono due i partiti: c´è chi lo venera e chi non lo sopporta; chi lo considera un comunicatore di emozioni musicali senza pari e chi ritiene odiosa l´immagine egocentrica e demiurgica in cui tradusse la figura del direttore d´orchestra; chi si è fatto estasiare dal suo carisma, come Eugenio Montale, che nel ´56, vedendolo dirigere una Salome, si lasciò andare all´enfasi dipingendolo come «un giovane leopardo che spolpi fino all´ultimo brandello la vittima da lui uccisa»; e chi non tollera il nazista, il monopolizzatore di festival, il pluri-miliardario da jet set, il distruttore di giovani soprani (ne forzava le voci fresche in ruoli tremendi, superiori alle loro capacità), il mercificatore che indusse a infangare Salisburgo, suo luogo natale e sede del suo impero, col soprannome di "Sleazeburg", città della corruzione

La vita kolossal del grande dittatore. La Repubblica 10 febbraio 2008. riguardo a Herbert von Karajan sono due i partiti: c´è chi lo venera e chi non lo sopporta; chi lo considera un comunicatore di emozioni musicali senza pari e chi ritiene odiosa l´immagine egocentrica e demiurgica in cui tradusse la figura del direttore d´orchestra; chi si è fatto estasiare dal suo carisma, come Eugenio Montale, che nel ´56, vedendolo dirigere una Salome, si lasciò andare all´enfasi dipingendolo come «un giovane leopardo che spolpi fino all´ultimo brandello la vittima da lui uccisa»; e chi non tollera il nazista, il monopolizzatore di festival, il pluri-miliardario da jet set, il distruttore di giovani soprani (ne forzava le voci fresche in ruoli tremendi, superiori alle loro capacità), il mercificatore che indusse a infangare Salisburgo, suo luogo natale e sede del suo impero, col soprannome di "Sleazeburg", città della corruzione. Oggi, a cent´anni dalla nascita (5 aprile 1908), mentre partono i festeggiamenti (avviati a fine gennaio da concerti dei Berliner Philharmoniker in capitali come Vienna, Parigi e Berlino, e tra i futuri appuntamenti spiccano i tre concerti celebrativi diretti da Riccardo Muti a Salisburgo a metà agosto), resta un´impresa ardua e scivolosa dare una misura a quest´ambivalenza. Però è innegabile che se c´è un mito direttoriale del secondo dopoguerra, se c´è un campione del podio che ha modificato concretamente il senso della propria professione, se c´è una proiezione assoluta e inevitabile del fascino del suo mestiere, questo è Herbert von Karajan. Un despota che incarnò un marchio di vendita stellare, una strada nuova per diffondere la musica, un pregiato mass medium. Incise un´incredibile quantità di dischi, venduti dalla Deutsche Grammophon più per l´esecutore che per i compositori. Con quest´etichetta (che per l´anniversario vuol rilanciare i suoi trecento titoli in catalogo, e intanto esce in Italia la raccolta Karajan Forever, mentre anche la Emi ripropone il suo patrimonio di dischi storici), Karajan stabilì un patto privilegiato e dagli esiti commerciali senza precedenti, coinvolgendo i Berliner Philharmoniker, innamorati non solo del suo genio, ma anche del modo in cui li faceva guadagnare, usando le prove come sedute per registrare e raddoppiando così i loro compensi. Era ossessionato dal lasciare segni, essere Tradizione e Storia: ci riuscì con abilità e opportunismo, incoronandosi come il direttore più venduto al mondo e il più filmato e documentato di tutti i suoi rivali messi insieme. Maniaco del progresso tecnologico, adottò entusiasticamente le trasformazioni dei dischi, dallo stereo al compact e al laser. E fu il primo musicista a fondare la propria casa di produzione cinematografica. Sapeva e voleva essere un divo. Alla fine della guerra il pubblico chiedeva eroi da adorare, specchi possenti come Maria Callas, Marlon Brando o Nureyev. Nobile e rapace nel profilo, «svelto e sottile come un levriero, le gambe snelle, il labbro che scopriva leggermente gli incisivi, aguzze orecchie da lupo, la chioma scomposta, l´occhio divorante immerso in un viso abbronzato dai tratti energici», scrisse Bernard Gavoty, Karajan aderiva sontuosamente al ruolo. La sua comparsa ricoprì varie funzioni: simbolo ideale della rinascita culturale della Germania; formidabile sovrano in un´epoca di crisi dell´autorità; garante dell´arte come sfera di armonia e bellezza, difesa da attentati iconoclasti in un periodo di avanguardie e rivoluzioni linguistiche. Nato tra le delizie estetiche salisburghesi, era stato battezzato Heribert ma tagliò la "i" a inizio carriera, per dare al nome un suono più eroico. Il padre era un medico che fu anche attore dilettante e suonatore di clarinetto, e la madre Martha, nativa della Slovenia, era un´appassionata di musica e in particolare di Wagner. Herbert scalò il successo quasi senza cedimenti o pause, e la parentesi nazista fu parte dell´impresa. Nel ”33, mentre era in visita dai genitori a Salisburgo, chiese d´iscriversi al partito, assumendo una seconda tessera due anni dopo, nella sezione di Aachen. In seguito avrebbe dichiarato che il suo solo obiettivo era la carica di direttore musicale ad Aquisgrana, paragonando quel gesto all´iscrizione a un club alpino per ottenere il permesso di sciare su una pista particolarmente invitante. Raggiunse lo scopo e fu nominato Generalmusikdirektor ad Aquisgrana a ventisette anni: era il direttore musicale più giovane del Reich. Secondo Richard Osborne, autore di una bella biografia (Herbert von Karajan: a Life in Music), non fu pro-Nazi, ma solo pro-Karajan, cioè coerente con le proprie divoranti ambizioni. Gli premeva fare musica ai massimi livelli ed era pronto a tutto. Gli ebrei non perdonarono. Nel ”55, a New York, lo accolsero manifesti con su scritto: «Hai aiutato Hitler a sterminare milioni di persone». E Israele rifiutò di ospitare i Berliner fino alla sua morte. Austriaco plasmato dalla gloriosa scuola tedesca, esplorò in modo inusuale l´opera italiana e francese (memorabili il suo Don Carlo, la sua Bohème, la sua Carmen). Aveva un repertorio vastissimo, da Bach a Schönberg, con risultati impressionanti in Beethoven (incise per tre volte l´integrale delle sinfonie, per le quali è considerato l´interprete di riferimento), Ciaikovskij (in particolare la Quarta e Sesta Sinfonia), Brahms, Bruckner e Richard Strauss (ma non comprese mai, s´è detto, il suo concittadino Mozart). La morbidezza del fraseggio e il nitore stilistico suonavano nuovi nella tradizione germanica. Era un apollineo immune da pesantezze teutoniche, e l´originalità colpiva specialmente nella lettura antiretorica di Wagner, dove l´orchestra, luminosa e soffice, esaltava la parola cantata, dando risalto alle psicologie dei personaggi. Fuse a suo modo i modelli di Furtwängler e Toscanini: il tedesco romantico e intensamente espressivo, il mediterraneo perfezionista e rispettoso del testo. Produsse un suono levigato, sensuale, carezzante. A volte come gonfiato, con effetto quasi surreale. A volte così poderoso che con lui i Berliner parevano due orchestre. Creò magie di esasperazione manieristica nella ricerca del dettaglio sonoro, col rischio di un´uniformità che lo ha fatto accusare d´interpretare in modo omogeneamente romantico anche la musica barocca. Ma a dispetto delle fughe nell´estetismo, incantava l´ascoltatore con magnetismo incomparabile. Successore di Furtwängler alla guida della Filarmonica berlinese, direttore dell´Opera di Vienna dal ”56 al ”64, fece di Berlino e Salisburgo le sue fortezze. Per un verso ottenne un contratto a vita con i Berliner, per l´altro dominò per trentacinque anni il festival della città di Mozart, condizionandone radicalmente la fisionomia. Vi organizzava messe in scena kolossal, vi firmava regie kitsch, vi accoglieva platee di milionari, vi registrava i suoi dischi, vi invitava le star più richieste. Sventrò la montagna per costruire la sala immensa della Grosses Festspielhaus e riusciva a far suonare a Salisburgo, tra estate e primavera, le due orchestre-icona d´Europa, i Wiener Philharmoniker e i Berliner. Alla tradizionale programmazione estiva aggiunse due nuove rassegne, quelle di Pasqua e Pentecoste, e portò la cittadina mozartiana al centro del mercato musicale internazionale. Assegnava la maggior parte dei contratti con gli artisti ad agenti di sua scelta, in particolare all´americano Ronald Wilford, con cui si vociferò (ma il pettegolezzo non s´è mai dimostrato) che condivideva la proprietà della Columbia Artists, l´agenzia col monopolio della musica negli Stati Uniti. Di fatto era enormemente ricco. Amava le macchine veloci, pilotava personalmente il suo jet e teneva uno yacht con venti uomini d´equipaggio ormeggiato a Saint-Tropez. Una settimana dopo la sua morte, nell´89, quando fu aperto il testamento, l´avvocato svizzero Kupper valutò per difetto l´asse ereditario in cinquecento milioni di marchi tedeschi. Lo divertiva regalare gioielli mozzafiato e quadri di Picasso alla sua terza moglie, l´indossatrice francese Eliette Mouret, che vive ancora nella loro villa ad Anif, a pochi chilometri da Salisburgo, dove nel cimitero del paese riposa il maestro. Era un uomo splendido, arrogante e immacolato, con un culto patologico per la pulizia (s´era rovinato la pelle delle mani per i troppi lavaggi), e sfoggiava volentieri uno stile sportivo fatto di maglioni dolcevita e vezzi personali quali l´orologio col quadrante rivolto all´interno. D´indole era autoritario e polemico, provocatore di liti spettacolari e chiacchierate: bisticciò con l´Opera di Vienna che non voleva ingaggiare un suggeritore italiano, si scontrò con la Scala di Paolo Grassi che nel ”78 aveva programmato la ripresa tivù di una produzione lirica con lo stesso cast da lui scritturato per un film-opera, se la prese coi fedeli Berliner che nell´84 contrastarono una sua protetta, la clarinettista Sabine Meyer, da lui invitata a entrare nell´orchestra. In vecchiaia lo tormentava un´orribile malattia dorsale. Per questo dirigeva fermo, poggiato a uno schienale, col busto stretto in un´armatura rigida. Le braccia quasi immobili, le dita delle mani che disegnavano trame di un´espressività conturbante. Pativa sofferenze atroci, e le esecuzioni s´erano fatte scabre, essenziali, prive d´intenti dimostrativi. Appariva stremato e struggente, di una bellezza dolorosa che non si può dimenticare. LEONETTA BENTIVOGLIO