Corriere della Sera 8 febbraio 2008, Antonio D’Orrico, 8 febbraio 2008
E attorno alla sua Gioconda la «pochade» di Nabokov. Corriere della Sera 8 febbraio 2008. Dicevano i maligni dell’epoca (1511, il gossip non l’abbiamo inventato noi) che Papa Giulio II chiamò Sebastiano Luciani (poi detto del Piombo) da Venezia a Roma non tanto per le sue doti di pittore quanto per quelle di musicista
E attorno alla sua Gioconda la «pochade» di Nabokov. Corriere della Sera 8 febbraio 2008. Dicevano i maligni dell’epoca (1511, il gossip non l’abbiamo inventato noi) che Papa Giulio II chiamò Sebastiano Luciani (poi detto del Piombo) da Venezia a Roma non tanto per le sue doti di pittore quanto per quelle di musicista. Sebastiano suonava divinamente il liuto ed era addirittura il frontman di una band. Sull’arte del pettegolezzo attorno a Sebastiano si cimentò anche Vladimir Nabokov, il maestro di Lolita, scrivendo che il pittore veneziano non aveva molta simpatia per Raffaello e non solo per questioni di gelosia artistica. C’era anche una gelosia più terra terra. Pare che Sebastiano «non fosse indifferente » a Margherita Luti, la donna che Raffaello avrebbe immortalato come la Fornarina. Nabokov descrisse Sebastiano come uno che seppe approfittare delle contraddizioni dello stato (pontificio) assistenziale: «Quindici anni prima di morire prese i voti dopo aver ottenuto da Clemente VII una carica poco impegnativa quanto lucrosa. da allora che viene chiamato Fra Bastiano del Piombo. Giacché il suo incarico consisteva nell’apporre enormi sigilli di piombo sulle infiammate bolle papali». A Nabokov si deve l’epitaffio più bello scritto sul maestro: «Fu un monaco dissoluto, amava gozzovigliare, scriveva sonetti mediocri. Ma che artista!». Cosa hanno in comune lo scrittore russo (nato a Pietroburgo nel 1899, esule a causa della Rivoluzione e morto in Svizzera nel 1977), capace di diventare il più grande romanziere americano del Ventesimo secolo (Saul Bellow ci perdoni, ma è la verità), e Sebastiano del Piombo di cui Vasari, il Gianni Brera dei pittori, scrisse che dipingeva piedi e mani «bellissimi» e stoffe degne di Armani («per tacere quanto erano ben fatti i velluti, le fodere, i rasi»)? In comune c’è il fatto che Nabokov, dopo essersi laureato a Cambridge (dove aveva brillato anche come portiere di calcio), si era trasferito a Berlino in una casa vicinissima al museo dove era ospitato uno dei quadri più famosi di Fra Sebastiano, il Ritratto di giovane romana detta Dorotea (detto anche la Gioconda berlinese), e ne rimase così colpito da farlo protagonista di La veneziana, uno dei suoi racconti più belli (la raccolta completa dei racconti dello scrittore sta per essere pubblicata da Adelphi). La veneziana si inserisce nella tradizione letteraria affascinante e un po’ sinistra del dipinto che prende vita. Come Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe, storia di un quadro- vampiro che succhia l’anima alla modella. Come, naturalmente, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, il dipinto più citato e inquietante nella storia della letteratura mondiale. La cosa più strana (per quanto ci riguarda in questa sede) è che Luigi Capuana, una ventina d’anni prima di Nabokov, scrisse un racconto horroreggiante, Il benefattore, con protagonista un altro ritratto di donna di Sebastiano: quello della presunta Fornarina (per carità, niente pettegolezzi). La storia di Nabokov è quasi un giallo (ci sta perfino per scappare il morto) e sicuramente è una pochade (con tresca extra- matrimoniale ambientata in un maniero inglese e fuga finale degli amanti in Rolls-Royce). Tutto comincia quando il Colonnello, un aristocratico appassionato di pittura, compra da McGore, restauratore e suo pusher di dipinti, il Ritratto di veneziana di Sebastiano del Piombo (che è in realtà il Ritratto della giovane romana di Berlino). Guardiamo il dipinto con gli occhi (e le parole impareggiabili) di Nabokov: «Il quadro era veramente magnifico. Luciani aveva ritratto di tre quarti, su un caldo sfondo nero, una bellezza veneziana. Un roseo tessuto scopriva un possente collo ambrato con pieghe di straordinaria dolcezza sotto l’orecchio, dalla spalla sinistra ricadevano le grigie pelli di lince che bordavano la mantella color ciliegia. Con le lunghe dita della mano destra divaricate, il medio stretto all’anulare, sembrava che un attimo prima la donna stesse per rimettere a posto le pelli che le scivolavano dalle spalle: era rimasta immobile in quell’attitudine e fissava languidamente dalla tela con i suoi occhi castani tutti scuri. La mano sinistra, avvolta da bianche crespe di batista intorno al polso, reggeva un cestino pieno di frutti gialli, una cuffia riluceva sui capelli castano scuro come una sottile coroncina». Un goffo studente di teologia, amico del figlio del colonnello, si accorge che il ritratto somiglia in maniera impressionante a Maureen, la moglie del restauratore McGore. L’aspirante teologo si innamora del dipinto al punto da sfiorare la pazzia: «Come sarebbe stato bello cingere con un braccio le spalle della Veneziana, prenderle dalla mano sinistra il cestino con i frutti gialli, andarsene tranquillamente con lei lungo quel bianco sentiero». La Veneziana in carne e ossa, cioè la bella Maureen, è invece l’amante del figlio del colonnello (se ne accorge lo stesso colonnello quando, chinatosi sotto il tavolo per raccogliere una carta caduta durante una partita di bridge, vede il figlio e Maureen che si fanno piedino, anzi ginocchino). Nel vaudeville di Nabokov al povero quadro accade di tutto. Ma dietro la sarabanda degli innamoramenti e dei tradimenti c’è il tema doloroso del confronto impietoso tra la «perfetta e inaccessibile bellezza» dell’arte e la miseria della vita reale. Non fidatevi mai, però, di Nabokov. C’è sempre il trucco: il quadro si rivelerà alla fine, una copia, un falso. La vera Veneziana resta inaccessibile nella sua bellezza. L’inaccessibile bellezza Dietro la sarabanda degli innamoramenti e dei tradimenti si cela il tema doloroso del confronto impietoso fra arte e vita Antonio D’Orrico