Corriere della Sera 8 febbraio 2008, Marco Imarisio, 8 febbraio 2008
«Tassisti, l’oligarchia che vince sempre». Corriere della Sera 8 febbraio 2008. MILANO – Che Dio t’assista, rigorosamente con l’apostrofo
«Tassisti, l’oligarchia che vince sempre». Corriere della Sera 8 febbraio 2008. MILANO – Che Dio t’assista, rigorosamente con l’apostrofo. Hai voglia a liberalizzare la crescita francese, come si proponeva Jacques Attali nel suo rapporto. Tanto poi devi fare i conti con loro, e finisce sempre male. La prevalenza del tassista nella società moderna è stata definitivamente sancita dalla veloce ritirata di Nicolas Sarkozy che ha rinunciato a qualunque riforma sulla liberalizzazione delle licenze dei taxi. Non era neppure una decisione governativa, quella che ha provocato il blocco del centro di Parigi per due giorni, place de la Republique piena di taxi fermi, e tutto intorno il traffico impazzito. Era un consiglio, un suggerimento. Il Dio tassista non ha gradito e ha lanciato il suo fulmine. Come non detto, la rupture andiamo a farla altrove. Tutto già visto, a latitudini leggermente più basse. All’inizio del luglio 2006 il pacchetto Bersani era «il fiore all’occhiello del nostro governo», così sosteneva un estatico Romano Prodi. Alla fine del mese il petalo che riguardava l’aumento del numero di licenze dei taxi era già stato calpestato dalle migliaia di auto bianche che avevano paralizzato Roma. Con avvocati e farmacisti si poteva liberalizzare, con i tassisti meglio lasciar stare. «Si sentono dei padreterni », sospirò Bersani. Anche le parole di Marco Revelli sono precedute da un sospiro: «Sono visibili, lavorano sulla facciata visibile del mondo. Trasportano la classe dirigente, e quindi le loro lotte hanno già in partenza una cassa di risonanza maggiore. Se vogliamo andare a caccia di simboli, sono l’emblema del postfordismo, che vede la superiorità dei flussi sui luoghi, quel che si muove vince su ciò che invece è fermo e radicato». Nei suoi studi sui processi produttivi e sulle forme politiche del Novecento, Revelli non ha mai nascosto il rimpianto per una sinistra sociale e solidale che oggi fatica a intravedere. Ma i successi dei tassisti gli sembrano soltanto il segno di tempi non esaltanti: «Se provochi l’arresto dei flussi, se intasi il traffico, esisti. Conta il movimento e l’immagine. Sono una oligarchia mobile ». I tassisti sono antipatici a tutti, non hanno una base sociale, sono portatori di se stessi. Eppure riescono dove altre categorie di lavoratori hanno fallito. I minatori inglesi che nel 1984 scioperarono per un anno intero contro la chiusura dei pozzi avevano con sé l’Inghilterra che detestava Margaret Thatcher, ma sono finiti sepolti nei luoghi che presidiavano. Le loro lotte hanno prodotto nel tempo film, romanzi, e una sconfitta così devastante che li ha portati all’estinzione. Nel 2002 il sindaco di Londra Ken Livingstone ci provò, forte della sua popolarità. Aumento vertiginoso delle tariffe in cambio di quarantamila nuove licenze, nel nome della deregulation. Il Dio tassista concesse 8.000 licenze come segno di buona volontà e si tenne tariffe da 140 euro per una corsa dall’aeroporto di Heathrow alla City. Dice Revelli: «Oggi i minatori dello Yorkshire sarebbero costretti a bloccare un’autostrada. Conta il sistema venoso e non il cuore. Chi presidia i flussi e e minaccia di bloccarli, comanda. Chi invece è confinato nel territorio con funzioni produttive ma non visibili è come se fosse morto. Per far parlare di sé deve finire carbonizzato come alla ThyssenKrupp». La prevalenza del tassista è visibile ad ogni livello. Imbarazza i governi centrali, Prodi e Sarkozy, ma anche quelli locali. Dopo lunga battaglia, nel 2004 si piegò l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Dopo breve assedio del centro cittadino si è piegato Walter Veltroni, concedendo un accordo che Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano e collaboratore del «pensatoio» de lavoce.info definisce «punitivo» per gli utenti, ma «ottimo» per loro, gli eterni vincitori. Revelli lo chiama il paradosso dei tassisti: «Si oppongono alla creazione di posti di lavoro, difendono rendite di posizione, hanno un potere di interdizione che produce danno ai cittadini, stanno nello spazio pubblico con logica privata. Sono perfetti rappresentanti del neoliberismo. Ma quando lo incrociano, finiscono con l’umiliarlo, svelandone la debolezza ». Gli amanti dei metodi draconiani – curiosamente nei blog antitaxi l’episodio è molto gettonato – evocano l’America del 1981, dove un Ronald Reagan fresco di elezione firmò una lettera di licenziamento collettiva e diecimila individuali per i controllori di volo che avevano paralizzato il traffico aereo. Ma gli Stati Uniti rappresentano il mondo capovolto dei taxi. «L’industria dei taxi rispecchia una società globalizzata in modo crudele», scrive Mathew Biju in «Taxi!», un libro che racconta la lotta contro lo sfruttamento dei tassisti indiani e pakistani. A New York il business dei taxi gira intorno al «medaglione», la licenza municipale. I proprietari del prezioso reperto (costa 300 mila dollari) reclutavano immigrati di prima generazione, sottoponendoli a turni massacranti di dodici ore per la modica cifra di 180 dollari, a prescindere dall’incasso giornaliero. Nel 1998 Rudi Giuliani ha deciso che i «medaglioni» vengano messi all’asta tre volte all’anno. Il numero delle licenze è stabilito dal sindaco in base al fabbisogno della città. Da allora, lo sfruttamento degli immigrati è leggermente diminuito, i prezzi delle corse invece sono crollati. Conclusione: «E’ quasi banale dirlo, ma i tassisti vincono laddove la politica è debole e il consenso dei cittadini ai loro governanti è friabile. In questo, rappresentano una spietata cartina di tornasole». I tassisti italiani citano spesso la riforma Giuliani come esempio negativo. Ma anche l’antiliberista Revelli dubita che le condizioni di lavoro dei colleghi newyorkesi siano la loro prima preoccupazione. Marco Imarisio