Mario Porqueddu, Corriere della Sera 8 febbraio 2008, 8 febbraio 2008
MILANO
Il rischio, dice, è che l’aspetto folkloristico, quasi romantico, impedisca di vedere tutta la violenza che c’è. «Per questo non ho mai amato il Padrino, né il libro, né il film: perché mi pare che non mostrino davvero l’orrore».
Certo, anche Vincenzo Consolo ha finito per scrivere di mafia. Ma quasi suo malgrado: «I miei temi – spiega – sono storici. Nella storia, però, c’entra anche la mafia». Ne ha scritto con il suo registro alto. Cita a memoria da una pagina di molti anni fa: «Palermo è fetida, infetta, in questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino». Oggi però ha quasi pudore a parlare da intellettuale, mentre fra la Sicilia e gli Stati Uniti rimbalzano le notizie degli arresti, i nomi italoamericani. Sorride solo per un attimo: « vero, è quasi roba da romanzo». Poi aggiunge subito: «Ma significa che le famiglie si erano riorganizzate, che il consumo di quello che veicolano, e cioè droga, è enorme in tutto l’Occidente: una piaga sociale. Significa denaro sporco e riciclaggio». Insomma, dice Consolo che «il punto non è non fare fiction su Cosa nostra. Ma è il modo a fare la differenza. Di questo scrisse anche Sciascia, e "Il giorno della civetta" fece capire a tanti che cos’era la mafia. che non si può avere l’occhio soltanto all’audience, bisogna che ci facciano vedere quanto è spietata la mafia». In ogni caso, ci penseranno altri. Perché l’autore di «Lo Spasimo di Palermo», quasi a sottolineare che non bisogna rimanere vittima delle suggestioni offerte da questi arresti, storie di anziani padrini, atmosfere da «pizza connection», oggi sceglie di commentare con tono da cittadino informato. « una delle operazioni di polizia più straordinarie che io ricordi – dice ”. La mafia aveva riallacciato i rapporti oltreoceano per ragioni di sopravvivenza. Chissà, forse adesso questa organizzazione sta per essere distrutta veramente. Ho sentito il procuratore Grasso in tv. Era molto soddisfatto. Noi, come sempre, speriamo». Spiega che quel «noi» non si riferisce soltanto ai siciliani: «Non voglio regionalizzare. Parlo di noi cittadini italiani. Perché la mafia da tempo non è più solo la specificità siciliana, l’ipoteca che grava sulla storia dell’isola. La mafia ormai è a Milano e in Germania, fra i colletti bianchi e nelle banche dei paradisi fiscali».
E dire che gli riuscirebbe facile fare quello che ci si aspetta da un Vincenzo Consolo. Parlare del 1800, dell’epopea della grande emigrazione «quando nei porti siciliani – ricorda – davano subito il permesso di partire ai malavitosi, per liberarsene, e fermavano i contadini col tracoma», oppure citare «l’inchiesta Sonnino-Franchetti del 1876» o «i libri di Napoleone Colajanni e la polemica che ebbe con Capuana, che la mafia non riusciva a vederla», o ancora «il mio amico Michele Pantaleone, fra i primi a scrivere di mafia e politica».
Invece no. Lui oggi pensa a Maria Lepanto «la madre di Borsellino, grande figura». E pensa a Grasso: «Ho sentito il procuratore in televisione, era soddisfatto. Speriamo».
Mario Porqueddu