Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 8 febbraio 2008, 8 febbraio 2008
Il poliziotto andò e vide un’auto Mercury Cougar, con targa della Pennsylvania intestata al ristorante «Joe Pizza» di Filadelfia gestito da un esponente della famiglia Gambino, ricoperta di neve
Il poliziotto andò e vide un’auto Mercury Cougar, con targa della Pennsylvania intestata al ristorante «Joe Pizza» di Filadelfia gestito da un esponente della famiglia Gambino, ricoperta di neve. Non ne scendeva più da due giorni, di neve, e quindi erano almeno due giorni che quella macchina era lì. Quando riuscì ad aprirla, il poliziotto trovò una pistola sotto uno dei sedili anteriori. Si allarmò. Poi guardò nel portabagagli e vide il cadavere di un uomo, con i polsi legati da un paio di manette, congelato e «duro come una roccia», scrisse nel rapporto al giudice. A quell’uomo avevano sparato sei volte, e in bocca avevano infilato una banconota da 5 dollari. Si chiamava Pietro Inzerillo, nato a Palermo 33 anni prima, esiliato negli Stati Uniti dopo che la mafia corleonese aveva ammazzato, in Sicilia, i suoi fratelli Totuccio e Santo. «Non è chiaro il motivo dell’uccisione dell’Inzerillo Pietro, anche se egli era coinvolto con il traffico di eroina a livello internazionale », concluse il poliziotto nel suo rapporto. A Palermo, invece, fu subito chiarissimo: Pietro, mafioso anche lui, era uno degli «scappati» dalla furia omicida scatenata dalla fazione di Totò Riina contro gli Inzerillo e gli uomini d’onore dell’altro boss concorrente, Stefano Bontate. Uno zio di Pietro, Antonino Inzerillo, due mesi prima era uscito dalla sua casa americana, sempre nel New Jersey, senza tornarci più, e tutti pensavano che fosse rimasto vittima della «lupara bianca»; sicuramente, per andare all’appuntamento con i propri assassini, Pietro aveva seguito qualcuno di cui si fidava e che invece l’aveva tradito. Ventitré anni dopo, il 30 agosto 2005, nel casotto dove teneva le sue riunioni di mafia, il boss Nino Rotolo – convinto seguace della tradizione «corleonese» – discuteva con un altro capomafia, Antonino Cinà. Non sapevano che una cimice piazzata dalla polizia registrava tutto. Parlavano dell’imminente uscita dal carcere di Tommaso Inzerillo, detto Masino u’ muscuni, nato nel 1949, rientrato in Italia dagli Usa e finito in carcere per vecchie pendenze. «Masino, quello che era il sottocapo, gli fece la base al fratello di Totuccio per salvarsi lui! – racconta Rotolo a Cinà ”. Perciò, vedi che uomo è». «Traditore», riassume Cinà, e Rotolo chiarisce: «In America... gli hanno fatto fare il cambio... Pietro, quello che hanno trovato nel bagagliaio...». Tradotto dal linguaggio malavitoso e dall’intreccio di nomi, Rotolo vuol dire che Masino Inzerillo fece da basista per l’omicidio di suo cugino Pietro (fratello di Totuccio e Santo, già eliminati a Palermo). E «fece il cambio»: aiutò i killer a far fuori Pietro per salvarsi lui. Non solo. Due mesi più tardi lo stesso Rotolo spiega a un altro interlocutore che Masino Inzerillo ha «portato» ai suoi assassini anche lo zio Antonino, il fratello del padre scomparso poco prima dell’omicidio di Pietro. E lo svela per dire che lui, con un tipo come Masino ’u muscuni non vuole avere niente a che fare. Anche perché ne teme la vendetta, visto che Rotolo partecipò, al fianco di Riina, alla guerra contro gli Inzerillo e all’uccisione di Totuccio. E di Masino dice: «Era uno che addirittura aveva detto che sapeva pure casa mia, e doveva venire lui a casa mia! Non è che me lo posso scordare! Qua ci sono cose personali... ma a questo ce ne possiamo avere fiducia? Ha preso il fratello di suo padre, glielo ha portato e glielo ha fatto affogare. E a suo cugino gli ha sparato lui! Fiducia ne possiamo avere?... S’è venduto il suo sangue e a noi... tu pensi che ha riguardi per noi? Questo è un cane!». Così parlava il «corleonese» Nino Rotolo, e per i magistrati che ieri hanno fatto notificare a Masino Inzerillo (già nuovamente in galera per un’altra vicenda) un ordine d’arresto per gli omicidi del cugino e dello zio del 1981 e ’82, quei discorsi intercettati valgono più delle parole di un pentito. Un atto d’accusa diretto, inconsapevolmente lanciatogli da un suo nemico interno a Cosa Nostra, dal quale ’u muscuni è chiamato ora a difendersi. La guerra con gli «scappati» per uno come Rotolo non è ancora finita, e fino ai rispettivi arresti lui e Salvatore Lo Piccolo duellavano a colpi di pizzini (cercando la mediazione dell’attendista Provenzano) per stabilire se intimargli un nuovo esilio – come lui avrebbe voluto – o lasciarli in Sicilia e imbastirci qualche traffico con gli Stati Uniti, secondo il programma di Lo Piccolo. Tra i suoi fedelissimi, però, ce n’era almeno uno che con gli Inzerillo d’oltreoceano era già entrato in contatto: è Gianni Nicchi, tuttora latitante, considerato tra i più pericolosi killer di mafia rimasti in circolazione, nonostante la giovanissima età, 27 anni da compiere la prossima settimana. Nicchi è il figlioccio di Rotolo, lo chiama «padrino», e ci sono intercettazioni in cui parlano di omicidi compiuti e da compiere, di come si ammazza meglio, il primo colpo per buttare a terra la vittima e il secondo in testa per finirla, «poi basta». A uno così, di un’altra generazione rispetto a Rotolo, con tutto il rispetto dovuto la guerra agli Inzerillo sembra non interessare più di tanto. Quando il primo della stirpe morì ammazzato, nel maggio 1981, lui era un neonato di pochi mesi e così, nei suoi viaggi in America insieme a Nicola Mandalà (boss di Villabate, quello che organizzò il viaggio di Provenzano nella clinica di Marsiglia), non disdegna affatto d’incontrare e organizzare allegre cene in compagnia delle rispettive fidanzate con Frank Calì, uomo d’onore della famiglia Gambino e cognato di un Inzerillo, Pietro, nipote del Masino ’u muscuni tanto temuto e disprezzato dal suo «padrino» Rotolo. Le foto scattate durante un soggiorno statunitense del novembre 2003 e sequestrate dalla polizia sono piuttosto eloquenti, così come i rapporti dell’Fbi sui contatti newyorkesi di Mandalà e Nicchi col giovane Pietro Inzerillo. In un colloquio registrato Nicchi riferisce a Rotolo dei suoi incontri, assicurandogli che «questo Pietro è amico nostro, Frank Calò (che sarebbe Calì, ndr) è amico nostro...». Nell’ultima generazione mafiosa, evidentemente, quando ci sono affari in ballo le antiche divisioni si superano più facilmente; e anche i vecchi boss che hanno combattuto le guerre tra cosche e continuano a covare rancori, alla fine finiscono per adeguarsi. L’intercettazione «E a suo cugino gli ha sparato lui! Fiducia ne possiamo avere? S’è venduto il suo sangue e a noi... tu pensi che ha riguardi per noi?» Nicchi e Rotolo Nicchi è il figlioccio di Rotolo, lo chiama «padrino», e ci sono conversazioni in cui parlano di omicidi compiuti e da compiere Giovanni Bianconi