Concita De Gregorio, la Repubblica 7/2/2008, 7 febbraio 2008
Due donne. Lo stesso giorno, la stessa ora: ieri, fra le tre e le quattro del pomeriggio. Siedono a molti chilometri di distanza in due piccole stanze d´ospedale quasi identiche
Due donne. Lo stesso giorno, la stessa ora: ieri, fra le tre e le quattro del pomeriggio. Siedono a molti chilometri di distanza in due piccole stanze d´ospedale quasi identiche. Una, Maria, ha indosso il camice. stanca perché viene da sei parti, due cesarei, e un pomeriggio di lavoro ancora l´aspetta. L´altra, Eleonora, è stanca perché non ha dormito quasi niente nemmeno stanotte. Sua figlia è stata operata per la seconda volta ieri, sta in una culla che sembra una scatola trasparente. Ha due settimane, pesa un chilo. Maria Cinquegrani ha 45 anni, vive e lavora a Palermo, è neonatologa. Per dieci anni ha lavorato nella terapia intensiva neonatale di un ospedale pubblico, ora dirige il reparto di una clinica dove nascono mille e cento bambini all´anno. Stamattina sei, appunto. Eleonora R. ha 34 anni, supplente in una scuola elementare, vive a Ravenna. Elena è la sua prima figlia. Non è uscita dall´ospedale dove è nata né sa quando ne uscirà. «Soprattutto non so come ne usciremo. Ci hanno chiesto, i medici, di firmare il consenso al primo intervento. Era un foglio, non l´ho voluto leggere. Ci hanno chiesto anche se volevamo che la battezzassero in sala operatoria. Io non ho capito bene lì per lì, ho detto no, la battezziamo dopo. Prima di firmare per l´operazione abbiamo domandato solo, mio marito ed io: ma poi starà bene? Cioè: potrà camminare e vedere, mangiare e parlare? Perché se no, se deve campare attaccata alle macchine dentro e fuori dagli ospedali, se deve soffrire tutta la vita, insomma... Non ci hanno mica risposto. Non lo sapevano credo. Poi abbiamo firmato e basta. Però io mi domando: se non lo sanno, come fanno a decidere?». Come fanno i medici a decidere? Maria Cinquegrani risponde senza pensarci un attimo. Non sono né i medici né i genitori a farlo: è il neonato che decide. « così, e bisognerebbe che chi parla di rianimare i neonati di 22 settimane ne avesse visto almeno una volta uno da vicino. Che sapesse di cosa sta parlando, insomma. A 22 settimane il rischio di morte è altissimo ma ancora più alto è quello di sopravvivere con handicap gravissimi. Se c´è un´emorragia cerebrale il bambino sarà spastico. Se è di terzo grado sarà tetraplegico. Se l´ossigeno utilizzato ha danneggiato la retina sarà cieco». «Questo - prosegue - ci dicono l´esperienza e la scienza e non c´è molto da discutere. Poi entra in gioco, però, il neonato. Quanto è vitale, quanto è forte, come risponde alle cure. Il neonatologo non prende mai una decisione in base all´età gestazionale: può essere sbagliata. Ti puoi trovare di fronte, mi è successo spesso, ad un bambino di 8 o 900 grammi, assai più grande del previsto. Operi le prime manovre rianimative e procedi ascoltandolo, guardandolo. Informi i genitori dei rischi, certo. Ma i genitori cosa possono dirti? Non ho mai sentito un genitore rispondere: non provateci. Chiedono delle conseguenze possibili ma le conseguenze, per definizione, arrivano dopo e non si possono mai prevedere con esattezza. Dipende dal bambino, appunto». Eleonora, la madre. «Mia figlia è nata di 24 settimane. Un´osterica l´altro giorno in corridoio mi ha detto la cosa più bella che ho sentito finora: "Coraggio, perché se c´è una possibilità sono le femmine a farcela". Sarà vero? Nessuno mi risponde». Maria, il medico. «E´ vero. Chiunque faccia questo lavoro lo sa. Fra maschi e femmine nati prematuri non c´è una differenza misurabile con parametri noti, sono apparentemente uguali. Solo che a parità di condizioni le femmine hanno più probabilità di andare avanti. Mi ricordo di una bambina nata in macchina, la madre era al quarto figlio. Ero di guardia quella notte. Ho visto salire l´ostetrica con quel fagotto in mano, pesava appena più di un chilo - 27 settimane però. Era avanti. Sono rimasta a guardarla tutta la notte. Mi ricordo della più piccola di tutte: 24 settimane, 600 grammi. Ce l´ha fatta. Una sola in dieci anni è sopravvissuta, solo lei tra le centinaia di prematuri che ho visto fra 22 e 24 settimane. Una femmina. Me lo sono chiesta anche io come mai, me lo chiedo ogni volta e ogni volta è un mistero. Credo che sia perché le donne mandano avanti la specie, ce ne vogliono tante per farlo, ne servono di più, sono più forti. Ma è la mia personale risposta... «. Eleonora dice che alla culla può restare solo un´ora, non di più. «Dopo non resisto mi sembra impossibile non poter fare niente, mi dispero». Maria non si dispera, l´assiste la compostezza della professione. Dice che si commuove, piuttosto. «Ogni volta, certo, mi commuovo. Siamo due esseri umani uno davanti all´altro: non sai mai chi hai di fronte, che vita sia quella, se sia già abbastanza forte per vivere davvero. Il mio maestro, il professor Giuffrè, ci diceva sempre che ogni essere umano ha il diritto di vivere e anche quello di morire. Un neonato ti parla, è lui che ti dice qual è il suo destino. Ci sono bambini che non reagiscono alle cure e ci sono quelli che magari reagiscono tardi, dopo 48 ore. Ce ne sono che sembra che ce la facciano e invece per quanto ti prodighi peggiorano. Allora non ha senso, davvero, far sopravvivere un bambino destinato a un calvario. Che cosa consegni alla famiglia? E quando la famiglia non ci sarà più?». Eleonora: «E poi io mi domando? E se ce la dessero viva ma paralizzata, cieca, con danni al cervello, incapace di vedere e di sentire, di capire? Ecco, mi domando: cosa faremmo allora?». Come si fa? Come si fa a decidere se e quando è il caso di smettere con le terapie di fronte a un neonato vivo? Maria: «Non si smette mai di curarlo. Si smette di accanirsi, che è molto diverso. E´ di nuovo il bambino che decide. Quando si sa che ha subìto un danno grave e si sa che avrà delle complicazioni importanti gli si forniscono le cure minime. A me piace pensare che la rianimazione la cominci quando il neonato te la chiede, dall´isola neonatale, e la vai fermando se lui ti chiede di smettere. Lui lo sa, a un certo punto, se deve vivere o morire. Esiste la scienza, certo, ma esiste anche la sensibilità, lo sguardo sull´individuo. Esiste l´imponderabile, anche. Non lo dimentichiamo mai». Isola neonatale. Si chiama così il lettino preriscaldato su cui si poggia il neonato appena uscito dal ventre materno, il bambino da rianimare. Isola, come se ci fosse il mare attorno. Maria: «Infatti c´è. C´è un mare che in due si deve attraversare: il medico e il bambino uno verso l´altro. Ogni volta è un´esperienza sconvolgente. Io ci parlo con questi bambini. Ogni mattina, ogni momento è un colloquio con loro. I valori che cambiano, il colorito, i movimenti. Rispondono, sempre ti dicono in che direzione stanno andando. Mi viene in mente Emanuele, ero molto giovane... «. Emanuele che mare aveva intorno? «25 settimane, 500 grammi. Ha rischiato di morire più volte. Il medico anziano decise di togliere i tubi. Io ero una ragazzina specializzanda, eravamo in due, c´era una compagna di corso con me. Pregammo il neonatologo di reintubarlo, di provare ancora. Non so dire perché. Sarà stato il cuore, ero giovane, me lo volevo mettere in tasca e portarlo via quel bambino. Mi sembrava che mi dicesse: ce la posso fare. Ebbe un´evoluzione positiva, si adattò. Adesso parla abbastanza, cammina abbastanza, va a scuola. Dice che siamo fidanzati. Ci sentiamo spesso». Eleonora è stanchissima però a casa non vuole tornare. «Finchè c´è lei resto qui, vorrei solo sapere come sta. Chissà cosa sente, se capisce. Chissà se se lo potrà dimenticare. Quando vado a dormire penso solo questo: non mi auguro che viva o che muoia. Spero che se lo dimentichi e ce lo possiamo dimenticare tutti. Lei è così piccola. Talmente piccola che se fosse stata un errore, destinata a morire intendo, adesso non se ne accorgerebbe nemmeno. Dopo sarebbe peggio. Non voglio che soffra, ecco. Non voglio che viva con la sofferenza dentro e tutto intorno a sé». Anche Maria è stanca ma ci sono i bambini del pomeriggio che aspettano di venire al mondo. «Le leggo una frase che tengo sulla scrivania, è presa da un documento dell´associazione pediatri canadesi. Dice così: "Nessun altro interesse deve essere considerato primario rispetto al miglior interesse del bambino, definito come bilancio fra i potenziali benefici e i potenziali danni. Né la stabilità o il benessere della famiglia, né la serenità dei sanitari, né le giustificazioni della società". Ecco: l´interesse del bambino come equilibrio fra danni e benefici. La mia serenità di medico non può essere tale se tengo in vita un essere umano che avrebbe avuto diritto di morire e che è destinato a soffrire in perpetuo. Né la famiglia né la società possono avere un bene da questo. Poi si mette da parte la teoria e si guarda in faccia l´essere umano, ciascun individuo, ogni momento. Basta ascoltare molto attentamente: quando sei lì con lui su quel crinale fra la vita e la morte arriva sempre un momento in cui ti dice dove vuole andare. Sempre».