Corriere della Sera 6 febbraio 2008, RAFFAELE LA CAPRIA, 6 febbraio 2008
Elogio della brevità alla Hemingway. Corriere della Sera 6 febbraio 2008. Si dice che gli editor i non amino pubblicare i libri di racconti perché secondo loro i racconti non si vendono bene, mentre i romanzi sì
Elogio della brevità alla Hemingway. Corriere della Sera 6 febbraio 2008. Si dice che gli editor i non amino pubblicare i libri di racconti perché secondo loro i racconti non si vendono bene, mentre i romanzi sì. A me pare che questo non corrisponda a verità e che tutto dipenda dal fatto che scrivere un bel libro di racconti è forse meno frequente che scrivere un bel romanzo. Credo anche che i racconti siano, e non abbiano mai cessato di essere, il fulcro della narrativa. E si leggono inoltre in un tempo più breve. Questo della brevità è un tema su cui ci si potrebbe soffermare per un momento perché mi ricorda quello che in modo provocatorio disse Borges in un’intervista. Disse: «I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili. La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull’essenziale, come fa la poesia...». Anche se dopo, in un’altra intervista, Borges si corresse e riconobbe che la sua era stata una boutade, tuttavia in quella provocazione era implicito un sentimento che oggi molto spesso affiora nell’animo di uno scrittore, il sentimento che ormai tutti i romanzi siano stati scritti e che forse è inutile rifarli perché ogni trama ne vale un’altra e ogni fatto somiglia a un «fatto diverso» che la televisione ogni giorno ci propina. E forse per questo si preferisce trovare un sostegno esterno nel poliziesco, nel giallo, nel giudiziario, il cui schema è protettivo perché sin dall’inizio stabilisce le regole del gioco senza togliere al giocatore nulla della bravura con cui lo conduce. Calvino aveva scritto negli stessi anni di Borges qualcosa a proposito di un capovolgimento della sua visione del mondo, qualcosa che Pietro Citati descriveva così: «Il mondo che fino ad allora gli si offriva come qualcosa di continuo gli si presentò all’improvviso come spezzato in frammenti isolati». Questo «stato frammentario » descritto da Citati non riguardava soltanto Calvino, era una condizione del mondo contemporaneo, un mondo in cui sono finite le grandi cause unificanti su cui si appoggiava il grande romanzo, sicché oggi che tutto è come disperso anche il grande romanzo deve accontentarsi di realtà più piccole, «minori» per così dire, o più circoscritte. Non so fino a che punto questa mia analisi sia arbitraria, ma io non sto facendo critica letteraria, sto raccontando le mie impressioni di scrittore, in altri termini sto facendo autobiografia. E poiché sto parlando della difficoltà di fare romanzo, io suppongo che in un’epoca come la nostra così fondata sulla velocità della comunicazione, i romanzi «lenti» come quelli tanto amati di Proust o di Musil abbiano ceduto il passo a un ritmo diverso annunciato sin dagli anni ’30 dalla scrittura «veloce » dei racconti di Hemingway, con quel dialogo sincopato sul tempo della musica di allora che tanto ci piacque. Anche uno spirito bizzarro come Antonio Delfini aveva visto a suo modo la situazione. Parlando dei suoi vani tentativi di comporre un romanzo dice che la sua difficoltà non era nella trama ma nella incapacità di trovare interesse per i personaggi che la realtà del suo tempo gli metteva sotto gli occhi. Il deterioramento delle condizioni di esistenza nella società massificata, consumista e conformista di oggi, con la sua falsa idea di libertà, e le sue prevedibili trasgressioni, influiva su una sensibilità come la sua negativamente circa la possibilità di invenzione narrativa. Riporto le parole di Delfini, autore di bellissimi racconti come Il ricordo della Basca, che scrive testualmente: «Questi uomini e donne reali, per quanto aureolati (con ogni sforzo) di qualche bugia d’incanto, d’amore, di fascino; per quanto trascinati nell’orbita dei propri affetti (amicizia, infanzia, passioni): sempre si mascheravano nella loro inutile, involuta, cretina e fredda esistenza, verso la quale l’immaginazione non poteva far altro che scoprirsi come uno stupido maniaco e dilettantesco regista di teatro dei burattini ». Tutte scuse, dirà qualcuno, per nascondere la propria incapacità di scrivere un romanzo. Eppure quella «inutile, involuta, cretina e fredda esistenza» dei tanti personaggi della realtà che fermava la fantasia di Delfini ha mosso invece oggi la fantasia di Antonio Debenedetti, autore di un bellissimo libro di racconti uscito in questi giorni e intitolato In due (Rizzoli). Sono convinto che questi dodici racconti scritti come in uno stato di grazia siano i migliori di tutti quelli scritti finora da Antonio Debenedetti, perché si tengono l’un l’altro e tutto torna, tutto è precisamente detto, con quella «spezzatura» che sottolinea il distacco e l’implicito giudizio morale dell’autore. Quel materiale umano e sociale che tanto poco ispirava Delfini fa scattare il disprezzo e la condanna di Debenedetti, che si manifesta con un’audacia anche stilistica, cioè radicata nella lingua, nella definizione di ciascun personaggio e nella descrizione delle loro meschine liaisons dangereuses; senza mai perdere di vista il nucleo centrale, il «significato» e la struttura simbolica del racconto. Per parlare di personaggi come questi, tutti imbracati in un inconsapevole cinismo e in una naturale amoralità ci voleva un occhio freddo, oggettivo, sprezzantemente ironico, all’altezza del male da rappresentare. Siamo dopotutto in una commedia all’italiana che si è guastata, dove non c’è niente da ridere, una commedia nera e non più compiaciuta, non indulgente ai nostri vizi nazionali. Qui la famosa «anomalia» si incarna nell’anomalia dei personaggi e genera un sillabario del Male, dei cattivi sentimenti. Non ho evocato a caso la parola «sillabario», perché secondo me è da Parise, dalla sua idea di racconto, che parte Antonio Debenedetti e diversamente e a modo suo elabora Come narrare RAFFAELE LA CAPRIA