LEONETTA BENTIVOGLIO, La Repubblica 3 febbraio 2008, 3 febbraio 2008
Emir Kusturica. La Repubblica 3 febbraio 2008. KSTENDORF (Serbia) Ad un incontro con Emir Kusturica si approda dopo un viaggio peculiare, scandito da paesaggi e volti che paiono ritagliati dal suo cinema fantastico, riflesso in film pirotecnici e intensamente balcanici come Il tempo dei gitani, Underground e Gatto nero, gatto bianco
Emir Kusturica. La Repubblica 3 febbraio 2008. KSTENDORF (Serbia) Ad un incontro con Emir Kusturica si approda dopo un viaggio peculiare, scandito da paesaggi e volti che paiono ritagliati dal suo cinema fantastico, riflesso in film pirotecnici e intensamente balcanici come Il tempo dei gitani, Underground e Gatto nero, gatto bianco. Dall´aeroporto di Belgrado il visitatore è immesso in un camioncino polveroso, il cui autista dai tratti zingari parla soltanto il serbo. Mette la musica a un volume altissimo e guidando chiacchiera al cellulare. Offre cinque ore di corsa da brivido tra i tornanti dei monti innevati della Serbia, su una statale con dissesti e minacce di valanghe. Può rallentare per favore? La domanda cade nel vuoto, lui non capisce o finge di non capire. Telefona ancora, compie l´ennesimo sorpasso folle, si ferma per divorare un piatto di peperoni all´aglio serviti da un cameriere con sigaretta ciondolante tra le labbra. quasi sera quando si raggiunge finalmente il borgo di Küstendorf, svettante come un miraggio su una collina circondata da montagne mozzafiato. La sua magia abbaglia a distanza grazie a un´enorme luna finta (relitto di un set di Kusturica) che spande la sua luce candida sulle case di questo paesino artificiale il cui nome, in tedesco, significa "villaggio sulla costa" (ma potrebbe anche riferirsi al cognome del regista, nel senso di "Kustu-villaggio"). Un po´ eremo monastico-rockettaro un po´ comune post-hippy, è stato inventato e letteralmente edificato qualche anno fa da Kusturica a pochi chilometri dal confine con la Bosnia. Lo compongono cottage di foggia antica e fiabesca, con tetti dalle lunghe tegole di legno, e sono lignei anche gli interni caldi e curatissimi. In più ci sono una chiesetta cristiano-ortodossa, una galleria d´arte, un negozio etnico, una biblioteca, un caffè gaio e fumoso, ristoranti bio e due sale di proiezione di cui una trasformabile in sala da concerto, dove di notte furoreggia il rock, tassello irrinunciabile del travolgente cosmo di Kusturica, che gira il mondo come musicista con il suo gruppo post-punk No Smoking. Tra i giovani registi e gli studenti di cinema che s´incrociano per le strade di Küstendorf, intitolate a eroi quali Fellini e Bruce Lee, capita d´imbattersi nello scrittore austriaco Peter Handke, coinvolto nella giuria del festival di cortometraggi svoltosi in questa cittadella d´arte a fine gennaio, e nel regista Nikita Michalkov, al quale il festival voluto da Kusturica ha dedicato una retrospettiva. «Ho scoperto questa zona chiamata Mokra Gora, cioè "collina bagnata", mentre giravo La vita è un miracolo», racconta il regista col suo faccione sgualcito e imbronciato. «Chiesi come mai quest´area ricca di natura stupefacente non fosse popolata. Mi dissero che è troppo ventosa e colpita dai fulmini. Così ho pensato di farci un posto per me e la mia famiglia. Poi mi è venuta voglia di andare per vecchi villaggi e trovare antiche case con cui erigere questa città in stile medioevale serbo, votata al produrre e diffondere cultura. Qualcosa il cui profitto non dà soldi a nessuno, ma è convogliato in eventi culturali». Per il festival spiega di essersi quasi completamente autofinanziato («abbiamo ricevuto solo qualche piccola sovvenzione dal governo») con le proprie attività, dal rock ai corsi di cinema: «Se si guadagna denaro dai film e dalla musica bisogna farlo circolare per nutrire la cultura. Niente di meglio che riunire gente pronta a scambiarsi energia e a dare vita a un ambiente che segua le regole dell´ecologia e dell´arte». Riferisce che forme e proporzioni, nel villaggio, non derivano da prefissate norme architettoniche, «ma da me soltanto. Però io sono un regista, non un architetto. Per questo Küstendorf è un buon posto. L´architettura odierna pensa solo a stabilire collegamenti standardizzati tra le case. Io invece ho voluto rapporti a misura d´uomo, concretizzando quella che pareva un´utopia. Sono un idealista, orgoglioso di affermarlo in quest´epoca che associa l´idealismo all´imbecillità». Emir Kusturica parla accomodato sul divano della sua casa, la più spaziosa del borgo. Una baita ordinata, con la chitarra elettrica poggiata in un angolo, molti libri negli scaffali e un arredamento rigoroso e minimale. S´aggirano lievi due donne bellissime, sua moglie Maja e sua figlia Dunja (ha anche un figlio maschio, Stribor, con cui dice di avere «un rapporto metafisico: ci picchiamo per amore, e anche se lui è più giovane e alto di me, io vinco sempre»). Forse tanta armonia mira a placare e a contenere l´energia debordante del padrone di casa, provocatore, megalomane e sempre agitato: «Ho una natura dinamica. Fare solo una cosa alla volta mi annoia. Combino, produco, suono, creo installazioni artistiche, giro video e film. Ho un contapassi. Sa quanti ne faccio al giorno? Almeno novemila. Sento il bisogno di fare più lavori contemporaneamente, devo vivere su due o tre livelli». Lo testimoniano anche i suoi film voluttuosi e caotici, di libertà quasi insostenibile, sospinti da languori di violini e trambusti di fanfare, «per i quali non ho mai voglia di concepire un´unica trama, ma penso a due o tre piani di racconto simultanei». Al momento le imprese che ha in fattura sono un video sulla sua coloratissima opera musicale («una punk-opera» cantata in lingua zigana che debuttò nel giugno scorso a Parigi) tratta dal suo film Il tempo dei gitani, e un documentario su Maradona, «un mago, un mito, l´ultimo grande calciatore. Oggi ci sono vari giocatori interessanti, però nessuno ha raggiunto i livelli di quest´individuo ipnotico, controverso e politicamente scorretto, che ha portato alle estreme conseguenze le caratteristiche del calcio. Ho strutturato il documentario, intitolato I sette peccati di un dio, in sette capitoli, ciascuno dedicato a uno dei sette giocatori che Maradona dribblò durante la partita dei Mondiali in cui l´Argentina sconfisse l´Inghilterra, nell´86». Inoltre, stimolato dalla Solares Fondazione delle Arti di Parma, di cui è presidente onorario (la fondazione ha coprodotto tra l´altro il suo documentario Super 8 Stories e distribuisce in Italia i concerti del gruppo No Smoking), Kusturica monterà opere liriche in qualche nostro importante teatro, ma non vuol dire quale: «Nel 2013, per il bicentenario della nascita di Verdi, farò qualcosa di speciale per il pubblico italiano. Mi piace il potente senso della vita delle opere di Verdi, tra le quali prediligo Rigoletto. Amo l´idea di mettere in scena immagini accompagnate dal canto. Nella lirica tutto è spassosamente astratto. In cinema, per rappresentare qualcuno che si suicida impiccandosi, bisogna creargli attorno una situazione credibile, mentre nell´opera basta far calare una corda sulla scena». Il suo ciclone di attivismo include la produzione del biologico: succhi di frutta, yogurt, miele, brandy. Le etichette su barattoli e bottiglie riproducono il ritratto di Emir insieme a quello del Che Guevara: «La Biorevolution, questo è il nome del mio programma, impone il criterio della qualità contro la quantità. In molti hanno provato a fare succhi buoni ma nessuno è paragonabile ai nostri, perché si guadagna tanto di più se si riduce la frutta e si aumenta lo zucchero, che invece è bandito dai miei. Il miglioramento della vita parte da queste scelte elementari, frammenti della rivoluzione che potrebbe salvare il pianeta. In un secolo abbiamo distrutto il nostro mondo più di quanto non sia accaduto negli ultimi due milioni di anni». frastornante e politicamente indecifrabile il flusso di riflessioni di questo selvatico ragazzone con scarpe da montanaro, giacche da camionista, capelli arruffati e occhi perennemente stanchi, nato nel ”54 a Sarajevo da una famiglia di origini bosniache e musulmane, e capace di proclamarsi «laico e jugoslavo». Quando Underground vinse a Cannes provocò polemiche sanguinose la sua congenita mancanza di correttezza politica. I bosniaci lo accusarono di aver tradito le sue radici e di aver dato voce alla mitologia espansionista serba. Lui insiste nel professare la sua idea di pace, parla di Jugoslavia e non di Serbia e lamenta le contraddizioni della sua terra: «Mentre l´Europa si univa, noi ci siamo frantumati a causa dei riconoscimenti fatti dall´Unione europea riguardo a stati che si dichiaravano indipendenti». Lontano dalla politica è il nuovo film che sta scrivendo, «piccola parabola vecchio stile che racconta le vicissitudini di un uomo il quale salva una città, in cui piove da tempo immemorabile, grazie a una macchina per fermare le alluvioni. Poi arriva la siccità e la gente del posto, che prima lo adorava, prende a contrastarlo». Vagheggia anche un ritratto cinematografico «del rivoluzionario Pancho Villa. Avrà capito che mi piacciono le rivoluzioni». Intanto è appena uscito con successo in Francia il suo ultimo film, Promise me this, che vedremo quest´anno anche in Italia: « la storia di un giovane contadino mandato dal nonno in città per vendere la mucca, comprare un´icona e prender moglie. Ma la ragazza di cui s´innamora è nelle mire di un tipaccio che vorrebbe farla prostituire, il che complica le cose. Poi tutto finisce al meglio, al contrario di quanto avviene nel cinema di oggi, in cui è raro che il bene prevalga sul male. Siccome il mondo è cattivo si fa trionfare sullo schermo la parte scura. Eppure è ridicolo e anche noioso che i film assumano la realtà così com´è. Un po´ come dirci e mostrarci che l´acqua è bagnata! Il cinema è tanto più grande di questo, e a me piacciono le commedie semplici e buffe che decretano la vittoria della bontà tra humour e paradossi, al di là del cosiddetto equilibrio. Cercarlo, nel mio cinema, è come voler distinguere l´anima dal corpo: impossibile». Sostiene di appartenere in pieno, come cineasta, «all´era del punk e della distruzione dei valori classici. Il cinema europeo, specialmente il neorealismo italiano e il realismo poetico francese, sono le basi del mio linguaggio. Ad esse s´è aggiunto il rock come vivida reazione politica». Ancor più che a Fellini, spesso evocato come riferimento dei suoi film, confessa di essere in debito con Visconti: «Ammiro la sua eleganza e ho cominciato imitandolo. Il che non vuol dire che gli somigli. Sono lontano mille miglia da Bergman, eppure anche da lui ho imparato molto». Dice che è il cinema a salvargli ogni giorno la vita: «Tira fuori il meglio di me, protegge le mie debolezze, esprime la mia ansia di perfezionismo, celebra la verità della finzione». LEONETTA BENTIVOGLIO