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 2008  febbraio 07 Giovedì calendario

Parlavano «talian». Cambiarono il Brasile. L’Osservatore Romano, giovedì 7 febbraio Dopo la Seconda guerra mondiale il governo brasiliano volle erigere a Caxias, la città più italiana del Paese nello Stato del Rio Grande do Sul, un grandioso monumento all’emigrazione con incisa a grandi caratteri questa scritta: A Nação Brasileira ao Imigrante

Parlavano «talian». Cambiarono il Brasile. L’Osservatore Romano, giovedì 7 febbraio Dopo la Seconda guerra mondiale il governo brasiliano volle erigere a Caxias, la città più italiana del Paese nello Stato del Rio Grande do Sul, un grandioso monumento all’emigrazione con incisa a grandi caratteri questa scritta: A Nação Brasileira ao Imigrante. Era il riconoscimento dell’enorme debito che il più grande Paese del Sud America aveva contratto con l’emigrazione italiana, probabilmente l’evento centrale della sua storia postcoloniale. Quando il Brasile divenne indipendente, nel 1822, era un immenso territorio spopolato, con enormi problemi da risolvere: la colonizzazione delle terre incolte; le rivolte indipendentiste che scoppiavano in tutte le province periferiche; il declino dell’economia schiavista, dopo che la comunità internazionale aveva posto fuori legge la tratta. L’immigrazione parve il rimedio appropriato. I coloni stranieri avrebbero occupato le zone vuote, sostituito la manodopera schiava, arginato le ribellioni, riequilibrata la popolazione dalla parte dei bianchi, dato che ancora nel 1860 la maggioranza dei brasiliani risultava composta di neri o mulatti. La politica immigratoria fu una precisa scelta politica volta a rifare il Paese, a partire dal sud, cioè dal Rio Grande, esteso poco meno dell’Italia ma disabitato, semiselvaggio, senza legami con il centro e per nulla desideroso di diventare brasiliano. Era stato sede di alcune missioni dei gesuiti fra i guaraní, i cosiddetti Sete povos das missões. Ma erano state opera degli spagnoli, abbandonate dai portoghesi quando il territorio era stato acquisito dal Brasile. Era stato poi il teatro della guerra farroupilha, a carattere repubblicano e indipendentista, protrattasi per un decennio, dal 1835 al 1845, quella in cui Garibaldi cominciò a creare il suo mito. Un conflitto che aveva evidenziato quanto infida fosse questa regione. Così, dopo l’immigrazione di alcune migliaia di coloni tedeschi, che si accaparrarono le terre migliori, sulla costa, poco a nord di Porto Alegre, il governo favorì l’arrivo degli italiani, che cominciarono ad affluire, stando ai documenti di immigrazione, a partire dal 1875. Per l’Italia, appena giunta ad unità, fu l’inizio dell’emigrazione di massa; per il Rio Grande, l’avvio della grande trasformazione, della sua definitiva incorporazione nello stato brasiliano Man mano che arrivavano in Brasile, gli italiani venivano indirizzati o a San Paolo, o nel Minas Gerais, o nell’Espirito Santo o, appunto, nel Rio Grande. L’insediamento più caratterizzato è quest’ultimo. Per le ragioni appena esposte, il governo vi aveva infatti delimitato una zona amplissima, più della Val Padana, totalmente incolta, lontana da tutto, montuosa, destinandola a loro. Vincendo la disperazione, adattandosi a fare ogni cosa, mantenendo una straordinaria coesione interna, con un tasso di prolificità incredibile (almeno una dozzina di figli per famiglia), il gruppo italiano non solo vinse la sfida ma creò nell’area che gli era stata assegnata, la serra gaúcha, l’embrione di un altro Brasile, ben diverso da quello tradizionale. Quali sono state le caratteristiche di questa comunità? Innanzitutto la solidità della struttura famigliare. L’unica forza sulla quale potevano contare i coloni era la coesione della famiglia, la sua capacità lavorativa, l’energia morale che ne derivava. E il numero dei figli ne accresceva la forza. In questa compatta struttura domestica il ruolo della donna era fondamentale, dato che gli uomini erano assenti tutto il giorno, impegnati a disboscare, lavorare in campagna, oppure occupati, ancora più lontano e per periodi più lunghi, nei lavori a favore della comunità. Si costruì a poco a poco una tipologia familiare e femminile che non aveva nulla in comune con quella coloniale. Fra questi due modelli di famiglia non ci furono conflitti perché l’ampiezza smisurata del Paese permise a ciascun gruppo di crescere in autonomia, senza interferenze né tensioni. Ma oggi la distanza fra il sud e il resto del Paese è molto ampia. La seconda caratteristica è rappresentata dall’attaccamento al sentimento religioso. Gli emigranti provenivano da regioni italiane nelle quali la Chiesa era il solo elemento di aggregazione, l’unico concreto luogo di appartenenza. La solitudine e l’abbandono in cui vennero a trovarsi nel nuovo mondo accrebbe questa religiosità, materializzatasi nelle chiese e nelle cappelle rurali, che fungevano da luogo di preghiera e di riunione, nelle edicole costruite nella foresta, molte delle quali ancora esistenti, nelle pratiche pie, nelle orazioni in comune, nella venerazione dei santi. Ma la cronica carenza di clero (i sacerdoti non bastarono mai ai bisogni della comunità) favorì la crescita di una religiosità molto autonoma, guidata nei primi anni della colonizzazione da laici, che dirigevano alla domenica i momenti di culto, seppellivano i morti, consigliavano la gente. Il "prete di scapoera", come veniva definito (da capoeira, in brasiliano bosco, foresta domata e ridotta a coltura) fu un’originale creazione della religiosità e della libertà dei primi coloni. C’è chi sostiene, probabilmente non a torto, che le comunità di base a carattere laicale cresciute negli anni recenti in tutto il Brasile, debbano molto all’organizzazione religiosa delle vecchie comunità di emigranti. Una terza caratteristica è costituita da quella che possiamo chiamare "etica del lavoro". Il lavoro fu la salvezza della prima generazione di coloni. Se non avessero lavorato a ritmi inimmaginabili, disboscando la foresta, costruendosi le case, prima in legno e poi in muratura, fabbricando gli strumenti essenziali, coltivando i campi e traendone il sostentamento, aprendo le strade, avviando l’indispensabile struttura commerciale di scambio, per loro ci sarebbe stata soltanto la sconfitta. E la sconfitta equivaleva a morire. Così la capacità lavorativa del Brasile italiano, se è stata all’inizio la salvezza degli emigrati, è diventata successivamente una straordinaria risorsa per il Paese, sorretta da uno spirito imprenditoriale, un’autonomia, una capacità innovativa e un senso del rischio che hanno enormemente arricchito l’economia nazionale. Si calcola che nel Rio Grande i discendenti di italiani siano oggi più di due milioni, un quinto della popolazione dello Stato. Questa comunità, inizialmente di contadini e lavoratori generici, produce ormai l’élite dell’imprenditoria locale, e poi intellettuali, giornalisti, professionisti, professori d’università, politici al massimo livello. Cinque governatori dello Stato nell’ultimo cinquantennio vantano un’ascendenza italiana: Ildo Meneghetti, Leonel Brizola, Sinval Guazzelli, Euclides Triches, Germano Rigotto. Il maggior elemento di distinzione e di coesione è stato la lingua. Ma non l’italiano bensì il dialetto. I coloni, analfabeti o semianalfabeti, si esprimevano solo in dialetto. La parlata, nelle condizioni di isolamento in cui vennero a trovarsi, rimase inalterata, con pochi apporti dal portoghese, limitati alle parole necessarie ai rapporti di scambio e alla comunicazione indispensabile. Nella mescolanza dei dialetti prevalse il veneto, cioè quello più usato. I veneti infatti erano più della metà degli immigrati italiani. Questa compattezza, sociale e linguistica si mantenne fino alla seconda guerra mondiale, quando fu interrotta dalle leggi emanate da Getulio Vargas, volte prima a creare in Brasile l’estado novo, poi, dopo l’entrata in guerra a fianco degli Stati Uniti, nel 1942, ad impedire l’uso della lingua dei due Paesi diventati improvvisamente nemici: Italia e Germania. L’italiano subì così un brusco ridimensionamento e sopravvisse soltanto come parlata "domestica", all’interno delle famiglie e nelle case. Tuttavia il "talian", come è stata definita questa koinè linguistica veneto-portoghese che ha dato luogo anche a testi letterari come la saga di Nanetto Pipetta, continua a sopravvivere e costituisce oggetto di studio da parte di linguisti ed etnologi. A farle perdere terreno è la scolarizzazione di massa, che abitua i giovani ad usare il portoghese tanto in pubblico quanto in privato. Ma il torto fatto durante la guerra alla comunità italiana, quando fu improvvisamente criminalizzata e derubata di ciò che la faceva sentire tale, cioè della lingua, è una ferita che ha sanguinato a lungo. E così il monumento nazionale all’immigrato ricordato all’inizio, edificato a Caxias, la prima e la più antica fra le colonie italiane, oggi una fiorente città di quasi mezzo milione di abitanti, inaugurato personalmente dal presidente Vargas nel 1954, poche settimane prima della sua scomparsa, non fu solo un riconoscimento ma ebbe il sapore di un gesto di riparazione e di riconciliazione. Come ha ricordato il compianto Gianfausto Rosoli, "in nessun altro contesto di immigrazione si trova un fenomeno del genere e di così lunga durata", un fenomeno che pone domande cui non è facile rispondere circa l’identità di questa comunità, perfettamente brasilianizzata ma tenacemente ancorata a un’origine non tanto nazionale quanto regionale o addirittura paesana. necessario infatti ricordare che "l’italianità" degli emigrati ottocenteschi, per lo più analfabeti e provenienti da regioni - Lombardia e Veneto - che da pochi anni erano confluite nel Regno, era precaria per non dire inesistente. Fortissimo era invece l’attaccamento al Paese, alla vallata, alla comunità locale. Questo attaccamento, intriso di nostalgia, di speranze, di disperazione, unito al dialetto, che dava forza e riconoscibilità alla consapevolezza di appartenere ad una comunità capace di sopravvivere al trapianto oltre oceano, in una terra sconosciuta, hanno costruito l’orizzonte identitario degli italiani del Rio Grande. Un orizzonte che inizialmente si è tradotto nell’abitudine di chiamare i nuovi insediamenti con lo stesso nome di quelli lasciati in Italia (Nova Milano, Nova Padova, Nova Bassano, Nova Trento, Nova Vicenza, Nova Treviso, Nova Venezia) e che oggi permane nel localismo, spesso ormai soltanto campanilistico, delle innumerevoli associazioni migratorie fiorite negli ultimi decenni (Vicentini, Trevigiani, Polesani, Padovani, Trentini ecc.). L’apporto che questa comunità ha fornito al cambiamento e alla modernizzazione del Brasile è stato decisivo. Mentre infatti in altre aree del Paese l’immigrazione è un fenomeno che rimase subordinato ad esigenze economiche e fu prevalentemente trasferimento di manodopera, qui fu un esperimento di ingegneria sociale che cambiò il volto del territorio, lo fece diventare polo produttivo di primaria importanza, lo inserì stabilmente nel corpo dello Stato, ponendo fine a tensioni e contese che erano rimaste vive per tutto l’Ottocento. L’immissione graduale di lavoratori liberi in un sistema prima fondato sulla dualità padroni-schiavi rimescolò la società, ne iniziò la stratificazione in classi, pose le premesse per la sua successiva evoluzione capitalistica, stimolò spinte al cambiamento prima inesistenti, mettendo in moto il processo di industrializzazione. Va ricordato che nelle colonie era stata vietata la manodopera schiava, sia per non compromettere le finalità della politica immigratoria, che mirava a trapiantare in Brasile il modello europeo, fondato sul lavoro libero, sia perché lo schiavismo suscitava negli europei ripugnanza e disgusto. Nelle terre di colonizzazione, o dove furono dislocati gli immigrati, si svilupparono quindi il senso del rischio, lo spirito d’iniziativa, l’orgoglio della produzione manuale, la concorrenza, l’abitudine al confronto e a intendere la vita come sfida e non come destino. Atteggiamenti e sentimenti ben diversi da quelli del Brasile tradizionale. questa nuova cultura importata dall’Europa che ha avviato la modernizzazione del Paese, con effetti che si irradiano dovunque. Il movimento dei sem terra è nato nel Rio Grande ad opera di discendenti di italiani, così come la serra gaúcha è diventata un polo produttivo fra i più avanzati di tutta l’America Latina. All’avanguardia sono anche le università del Rio Grande, in particolare quelle di Caxias do Sul (www.ucs.br) e di Passo Fundo (www.upf.br), non a caso atenei comunitari, cioè né pubblici né privati bensì espressione della comunità locale (municipi, camere di commercio, associazioni di categoria, diocesi), pensati secondo un modello solidaristico tipicamente italiano. Vi si sta imponendo una nuova generazione di storici, per la maggior parte di origine italiana e tedesca, i cui studi, dopo quelli pionieristici di Rovilio Costa, benemerito fondatore a Porto Alegre della casa editrice Est edições (www.esteditora.com.br), tuttora attivissima, tendono a dimostrare che l’emigrazione europea e la colonizzazione non rappresentano una storia minore, "ai margini" della grande storia brasiliana, una sorta di versione americana di quella che noi chiamiamo storia locale, ma sono, al contrario, parte integrante e decisiva del processo di costruzione della nazione e dello Stato. Il prodotto più recente di questa nuova storiografia sono gli atti del convegno svoltosi nel 2005 a Caxias, in occasione del centotrentesimo anniversario dell’arrivo dei primi italiani, pubblicati in coedizione con l’Università di Padova (Imigraçao e cultura, a cura di Loraine Salomp Giron e Roberto Radünz, Educs Editora, 2007). Questo libro si affianca ad un analogo volume edito nel 2001 dalla Upf editora di Passo Fundo (RS: 200 anos definindo espaços na história nacional, a cura di Ana Luiza Setti Reckziegel e Loiva Otero Félix) e ripropone con dovizia di argomenti una tesi tanto suggestiva quanto innovativa: il Brasile moderno non è un Paese monocentrico ma policentrico, tuttora in divenire, alla cui costruzione hanno contribuito e contribuiscono tanto le componenti tradizionali, di origine coloniale, quanto quelle derivate dall’emigrazione. Come dire: la Festa dell’uva che ad anni alterni, alla fine di febbraio, richiama a Caxias centinaia di migliaia di persone, è costitutiva dell’identità del Brasile non meno del Samba di Rio o della Capoeira della Bahia. E così gli italiani, dopo aver rifuso la società e trasformato l’economia del Paese che li ha accolti, ne stanno ora modificando la percezione culturale. Gianpaolo Romanato