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 2008  febbraio 07 Giovedì calendario

«Lo salvai, ma oggi è cieco. Non lo rifarei». la Repubblica, giovedì 7 febbraio Quindici anni fa ha rianimato e salvato un bambino nato dopo 23 settimane di gestazione e con un peso di soli 390 grammi

«Lo salvai, ma oggi è cieco. Non lo rifarei». la Repubblica, giovedì 7 febbraio Quindici anni fa ha rianimato e salvato un bambino nato dopo 23 settimane di gestazione e con un peso di soli 390 grammi. Fu un caso, la notizia finì nelle riviste scientifiche internazionali. Giampaolo Donzelli, allora direttore della terapia intensiva neonatale del Meyer, è rimasto segnato da quell´esperienza, che lo ha spinto a lavorare sugli aspetti etici della sua professione, fino a scrivere due anni fa la Carta di Firenze, in cui si disegna un codice di comportamento dei medici di fronte ai prematuri. Professore, come ha vissuto il salvataggio di quel bambino? «E´ stato un grande successo per tutta la mia équipe. Eravamo entusiasti per il risultato. Poi a distanza di tempo quel bimbo è diventato cieco, ha sviluppato difficoltà motorie, cognitive e relazionali. E´ stato un duro colpo per me come medico. Mi sono chiesto a lungo se in quell´occasione ho fatto il mio dovere di dottore e continuo ad interrogarmi sulle capacità della medicina di fronte a questi casi, su quando bisogna fare le terapie e quando è necessario evitarle perché non servono. Ho cambiato idea sulla rianimazione di neonati così prematuri». A che età gestazionale ritiene utili le cure? «Alla ventiduesima settimana non c´è possibilità di risposta alle cure, quindi curare è accanimento terapeutico. Bisogna limitarsi all´assistenza compassionevole. L´atteggiamento alla ventitreesima deve essere lo stesso anche se può aumentare il numero di casi straordinari che giustificano il tentativo di rianimazione. Alla ventiquattresima c´è una maturità biologica che può permettere risposte migliori alle terapie mediche». Che rischi comporta il tentativo di salvare un prematuro? «Se si tratta di un feto alla ventiduesima o ventitreesima settimana il rischio è quello di dare un dolore inutile al bambino e alla sua famiglia, tra l´altro per affrontare un percorso sanitario che porta quasi sempre inevitabilmente ad un fallimento. E poi bisogna tenere conto dei problemi legati alla disabilità di chi sopravvive, come nel caso del bambino che ho salvato quindici anni fa. E´ una riflessione molto delicata, però è un tema di cui la società deve tenere conto. Almeno dal punto di vista dell´aiuto alle famiglie che devono affrontare un percorso difficile accanto ad una persona con problemi di salute molto gravi». Michele Bocci