Il Sole 24 ore 3 febbraio 2008, Goffredo Fofi, 3 febbraio 2008
Il pacifista che amava l’azione. Il Sole 24 ore 3 febbraio 2008. Parlare di Gandhi profeta religioso e politico, l’anti-Machiavelli che si volle disarmato d’armi materiali e ne cercò di morali, vuol dire continuare a porsi le domande, perennemente disattese, sui rapporti tra i fini e i mezzi nell’azione politica, nell’intervento nella realtà allo scopo di renderla più giusta
Il pacifista che amava l’azione. Il Sole 24 ore 3 febbraio 2008. Parlare di Gandhi profeta religioso e politico, l’anti-Machiavelli che si volle disarmato d’armi materiali e ne cercò di morali, vuol dire continuare a porsi le domande, perennemente disattese, sui rapporti tra i fini e i mezzi nell’azione politica, nell’intervento nella realtà allo scopo di renderla più giusta. Ma oggi del magistero gandhiano si ricordano più facilmente le enunciazioni più generiche della non violenza (che Capitini ci insegnò a scrivere senza il trattino, traduzione di una parola indiana eminentemente attiva) e non le più dure, nell’invito a non esercitare la violenza nella vita quotidiana come tra ceti e stati. Se ne dimenticano i suoi immediati corollari, altrettanto importanti della nonmenzogna (dovere di verità) e della noncollaborazione, che può avere a sua volta un corollario di enorme rilievo, uno strumento pubblico e politico nella disobbedienza civile. Gandhi lesse con estrema attenzione il pamphlet di Thoreau, e i suoi maestri occidentali moderni furono certamente l’autore di Walden, Tolstoj e il Mazzini più pedagogico-religioso della polemica con le due strade vincenti del comunismo e del capitalismo per Capitini "l’assoluto dello Stato" e "l’assoluto del benessere", e dell’insistenza sui doveri prima che sui diritti. Secondo il Mahatma, «tutti possono non-cooperare, ma pochi sono capaci di disobbedienza civile», della quale diceva nella "Giovane India" che «implica un’abitudine all’obbedienza volontaria alle leggi senza paura delle loro sanzioni». La disobbedienza non basta, se non c’è questa chiarezza di metodo nel rapporto con le leggi in corso. La nonviolenza deve farsi disobbedienza civile diventando "azione diretta", qualcosa di «intensamente attivo, di più attivo della resistenza fisica o della violenza». Con rare eccezioni, si direbbe che i nonviolenti siano interessati soprattutto al perfezionamento di sé e alla ricerca della purezza dei mezzi che non alla risposta al male delle società. In Italia fanno parte di un arcipelago, per molti aspetti affascinante perché si tratta comunque di persone moralmente degne e certamente migliori, di esperienze locali di "training" (ma a cosa?) e di "buone pratiche" che rischiano di non incidere sui destini generali mentre si tratterebbe anzitutto «di insegnare ai deboli l’azione diretta dando loro il sentimento di essere forti e in grado di sfidare la forza fisica», e solo allora la nonviolenza potrebbe "muovere le montagne"... Negli ultimi anni di vita il pacifista Gunther Anders accusava i nonviolenti di limitarsi all’autoperfezionamento e ad happening domenicali: «Non sopporto più di vedere che abbiamo paura di impiegare la violenza contro la violenza che ci minaccia ( ... ) mentre assieme ai nostri discendenti veniamo esposti al pericolo di morte da parte di uomini violenti» (Stato di nevessità e legittima difesa, Ecp 1997). Tocca ai nonviolenti dimostrare che è possibile essere attivi altrimenti. Goffredo Fofi