Khaled Hosseini, il cacciatore di aquiloni, 6 febbraio 2008
Il cacciatore di aquiloni. Una folla straripante riempiva lo stadio Ghazi. Migliaia di persone andavano e venivano lungo le gradinate di cemento
Il cacciatore di aquiloni. Una folla straripante riempiva lo stadio Ghazi. Migliaia di persone andavano e venivano lungo le gradinate di cemento. I bambini giocavano a rincorrersi nei corridoi e sulle scale. L’aria era impregnata del profumo di salsa piccante misto a puzza di letame e sudore. Passammo vicino a tre ambulanti che vendevano sigarette, pinoli e biscotti. Un ragazzo allampanato con una giacca di tweed mi afferrò per un gomito e mi sussurrò nell’orecchio se volevo comperare delle immagini "molto sexy". «Molto sexy, agha» ripeté con gli occhi che dardeggiavano a destra e sinistra. Scostò una falda della giacca perché dessi un’occhiata alle foto. Erano cartoline tratte da film indiani che mostravano attrici, completamente vestite, abbandonate in modo languido tra le braccia dei loro uomini. «Nay, grazie.» «Se lo beccano, gli danno delle frustate da far rivoltare suo padre nella tomba» commentò Farid. Naturalmente i posti non erano numerati. E non c’era nessuno che ci accompagnasse al nostro settore, alla nostra fila, al nostro posto. Era sempre stato così, sin dai tempi della monarchia. Grazie alle gomitate e alle spinte di Farid, trovammo due buoni posti e ci sedemmo, appena a sinistra della metà campo. Ricordavo che, negli anni Settanta, quando Baba mi portava allo stadio a vedere le partite di calcio, il tappeto erboso del campo era perfettamente verde. Adesso era un disastro. C’erano buchi ovunque. In particolare notai un paio di buche profonde scavate nel terreno dietro i pali della porta meridionale. Niente più erba, solo terra battuta. Finalmente le due squadre scesero in campo - tutti i giocatori indossavano calzoni lunghi nonostante il gran caldo - e la partita ebbe inizio. Era impossibile seguire il pallone nelle nuvole di polvere. Sulle gradinate facevano la ronda giovani talebani che colpivano con la frusta chiunque esprimesse il proprio entusiasmo a voce troppo alta. Poco dopo il fischio della fine del primo tempo, entrarono nello stadio due Toyota rossi, simili a quelli che avevo visto pattugliare la città. La folla si alzò in piedi. Nel cassone di uno dei pick-up c’era una donna con un burqa verde, nell’altro un uomo con gli occhi bendati. I Toyota percorsero lentamente la pista come per permettere al pubblico di godersi lo spettacolo. Ottennero l’effetto desiderato. La gente allungava il collo, si metteva in punta di piedi, indicava i due passeggeri. Vicino a me Farid recitava una preghiera facendo sobbalzare il pomo d’Adamo. I pick-up si diressero verso l’estremità del campo sollevando due nubi di polvere. Li aspettava un terzo Toyota con il cassone colmo di pietre. Improvvisamente capii il senso di quelle due buche dietro i pali della porta. Scaricarono le pietre. Dalla folla si alzò un mormorio di apprezzamento. «Vuole rimanere?» chiese Farid. «No» risposi. Non c’era nulla che desiderassi più che andarmene da quel posto. «Ma dobbiamo restare lo stesso.» Due talebani con il kalashnikov sulle spalle fecero scendere l’uomo e altri due la donna. Quest’ultima si afflosciò a terra. I soldati la rimisero in piedi, ma lei cadde di nuovo. Quando cercarono di rialzarla si mise a gridare e a scalciare. Erano le grida di un animale selvaggio che cerca di liberare la zampa intrappolata in una tagliola. Non le dimenticherò mai. Arrivarono altri talebani e tutti assieme la costrinsero a calarsi dentro una delle buche. L’uomo bendato non oppose resistenza e prese posto nell’altra. A quel punto i corpi dei due sporgevano dal terreno dalla vita in su. Vicino alla porta c’era un religioso grassoccio e dalla barba bianca, vestito di grigio. Si schiari la gola nel microfono che reggeva in mano. Dietro di lui, la donna nella buca continuava a gridare. L’uomo recitò una lunga preghiera dal Corano. La sua voce salmodiante risuonava nell’improvvíso silenzio dello stadio. Mi tornarono alla mente le parole di Baba. Fregatene di quello che dicono quelle scimmie presuntuose. Non sanno fare altro che contare i grani del rosario e recitare un libro scritto in una lingua cbe neppure capiscono. Dio ci scampi e liberi se l’Afghanistan dovesse cadere nelle loro mani’. Conclusa la preghiera il religioso si schiarì di nuovo la voce. «Fratelli e sorelle! » esordì parlando in farsi. «Oggi siamo qui riuniti per assistere a un atto di ubbidienza alla shari’a. Oggi siamo qui perché giustizia sia fatta. Oggi siamo qui perché il volere di Allah e la parola del profeta Muhammad, la pace sia con lui, guidino l’Afghanistan, la nostra amata patria. Ascoltiamo ciò che Dio ci dice e obbediamo, perché davanti alla grandezza di Dio non siamo che umili creature impotenti. E che cosa dice Dio? Dio dice che ogni peccatore deve essere punito in modo conforme al suo peccato. Non sono parole mie e neppure dei miei fratelli. Sono parole di Dio!» disse indicando il cielo con la mano libera. Mi scoppiava la testa. Il sole era insopportabile. «Ogni peccatore deve essere punito in modo conforme al suo peccato» ripeté il religioso abbassando la voce e scandendo ogni parola con drammatica lentezza. «E quale punizione, fratelli e sorelle, spetta agli adulteri? Come puniremo coloro che disonorano la santità del matrimonio? Come dovremo trattare coloro che sputano in faccia a Dio? Come dovremo rispondere a coloro che gettano pietre nei vetri della casa di Dio? Risponderemo con le stesse pietre! » Spense il rnicrofono. Un mormorio percorse la folla. Accanto a me, Farid scuoteva la testa. «E si definiscono musulmani» sussurrò. Un uomo alto con le spalle larghe scese dal pickup. Gli spettatori lo accolsero con grandi ovazioni. Questa volta nessuno venne frustato per aver acclamato a voce troppo alta. La veste bianca dell’uomo brillava nella luce pomeridiana. Salutò la folla con le braccia spalancate. Quando si volse verso il settore dove ci trovavamo noi, vidi che portava occhiali scuri dalle lenti rotonde, alla John Lennon. «Dev’essere lui» disse Farid. Il talebano con gli occhiali scuri si diresse verso il mucchio di pietre, ne raccolse una e la mostrò al pubblico trepidante. Poi, assumendo l’assurda posizione di un lanciatore di baseball, scagliò la pietra contro l’uomo bendato colpendolo alla tempia. La donna continuava a emettere grida strazianti. Un improvviso «OOH!» si levò da un capo all’altro dello stadio. Chiusi gli occhi e mi coprii il viso con le mani. Ogni pietra che veniva lanciata era accompagnata da un lungo boato. Quando gli spettatori tacquero, chiesi a Farid se lo spettacolo fosse finito. Mi disse di no. Pensai che si fossero stancati di gridare. Non so per quanto tempo rimasi con il viso nascosto tra le mani. Riaprii gli occhi quando sentii che le persone attorno a me chiedevano: «Mord? Mord? morto?». L’uomo nella fossa era ridotto a un ammasso sanguinolento. La testa era caduta in avanti, il mento sul petto. Il talebano con gli occhiali alla John Lennon aveva ancora in mano una pietra e continuava a lanciarla in aria e a riafferrarla guardando un uomo accucciato vicino alla buca che auscultava con lo stetoscopio il petto di quello nella buca. Si tolse lo stetoscopio dalle orecchie e scosse il capo. Il talebano tornò a colpire. Quando tutto fu finito, i corpi insanguinati, furono gettati senza cerimonie sui pick-up, mentre alcuni uomini riempivano in fretta le buche. Uno di loro cercò di coprire le grandi chiazze di sangue rimaste sul terreno spandendovi sopra della terra con i piedi. Alcuni minuti dopo le due squadre tornarono in campo. Era iniziato il secondo tempo. Khaled Hosseini