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 2008  gennaio 27 Domenica calendario

Quel bicchiere di bourbon dove affogò il Grande Slam. La Repubblica 27 gennaio 2008. era il 1961, quando il direttore del Giorno decise che ero maturo - bontà sua - per una lunga trasferta in Oriente: avrei preso a firmare, nientemeno, da Inviato Speciale

Quel bicchiere di bourbon dove affogò il Grande Slam. La Repubblica 27 gennaio 2008. era il 1961, quando il direttore del Giorno decise che ero maturo - bontà sua - per una lunga trasferta in Oriente: avrei preso a firmare, nientemeno, da Inviato Speciale. Sbarcai a Sydney, e, appena entrato in un Club chiamato White City, chiesi dove si potesse incontrare Jack Crawford. Dei campioni del passato ancora vivi, Crawford era quello che più mi interessava. Di lui avevo letto in un libro di Allison Danzig, ed ero stato tanto fortunato da parlarne con l´autore, uno dei grandi scribi americani che si erano occupati di tennis, così come Paul Gallico e Damon Runyon. Quando avevo incontrato, un paio d´anni avanti, Danzig a New York, quell´omino sempre in blazer, incredibilmente minuto per un ex campione di football americano, era parso divertito da certe mie connotazioni, e soprattutto dal mio passaporto, per solito marchio d´infamia di poveracci o addirittura appartenenti alla mafia. Mi aveva preso, Allison, sotto l´ala, e avevo capito che mi avrebbe aiutato nel proposito di scrivere un lungo libro sul tennis, del quale ero allora il solo ad aver rintracciato le origini rinascimentali. Così, la sera, di fronte ad un immancabile bourbon che non mancava di offrirmi, Danzig mi raccontava storie. Una di queste riguardava un australiano, Jack Crawford, soprannominato Gentleman Jack, per varie caratteristiche. La più invidiabile, secondo Danzig, era l´eleganza. Negli anni Trenta, in cui certi campioni americani osavano presentarsi in t-shirt, e l´inglese Bunny Austin aveva addirittura mostrato polpacci nudi sotto i primi calzoncini mai apparsi a Wimbledon, Gentleman Jack si esibiva ricoperto di flanelle, camicia con maniche lunghe inclusa. E, per dare un tocco definitivo, mai si separava da certe racchette di forma ottagonale, una sua invenzione esemplata su quelle del royal tennis di Enrico VIII. Nonostante quelli che parevano a più d´uno impedimenti, Gentleman Jack era di certo tra i primi cinque tennisti del mondo. Ma fu nel 1933 che l´australiano si avvicinò ad un´impresa mai accaduta. Lo vidi vincere - raccontava Danzig - i suoi Campionati d´Australia, il primo Major, il primo grande torneo della stagione. Si ripeté a Roland Garros, riuscendo a scoraggiare l´enfant du pays, il geniale Henri Cochet, il primo campione di umili origini in uno sport aristocratico. Passò elegantissimo e trionfante sui prati di Wimbledon, ed eccolo a Forest Hills, per gli U. S. Championships. «Qui mi venne - continuava Danzig - un´idea. Come tutti noi del tennis, occupavo gli spazi vuoti dei tornei giocando a bridge. E, d´un tratto, mi resi conto che, avesse vinto anche la quarta finale della stagione, Crawford avrebbe compiuto qualcosa di simile a un Grand Slam contratto e in zona». Accortosi della mia perplessità, il maestro si affrettò a spiegare che, viste le carte, un bridgista può affermare che vincerà tutte le tredici prese. Il suo avversario obbietta «contre», e se il dichiarante realizza lo stesso tutte le prese gli tocca il massimo dei punti. Dopo una benevola occhiata di controllo, Danzig continuò: «Capisci da te cosa significava una simile vittoria, mai realizzata, sin lì, da nessuno». Gentleman Jack - continuò il maestro - Ci andò molto vicino. Vinse due dei primi tre set, entrò negli spogliatoi, come consentiva il regolamento, ma, quando ne uscì, sembrava un altro uomo. Annebbiato, barcollante, non riuscì a raccattare altro che un game». Sorpreso, mi affrettai a chiedere le ragioni di quel crollo. «C´è più di una versione - rispose il maestro - e forse, se scrivi il tuo libro, sarebbe il caso che glielo chiedessi tu stesso». Ecco perché, al mio sbarco in Australia, mi ero affrettato a chiedere di Crawford. Ebbi fortuna. Non solo abitava a Sydney, ma non lontano da White City. Fissato l´appuntamento, fui ricevuto da un bel signore sessantenne, e da sua moglie Marjorie, che era stata, anche lei, una campionessa. Nel vasto salotto campeggiavano le rarissime coppe dei grandi tornei. Tra loro, in una vetrina, mi sorpresi nel notare una imponente bottiglia di bourbon, il cui tappo in argento inalberava una racchettina. Come la conversazione si fu riscaldata, cercai di farla scivolare sullo Slam mancato, accennando anche alla mia familiarità con Danzig. Crawford sorrise, poi scosse la testa, per dichiarare: «Una vecchia storia, per altro molto semplice. L´estate americana aveva accentuato l´inclinazione ad una mia allergia per le graminacee. Prendevo certe pillole che, se mi indebolivano un tantino, riuscivano a limitare il fastidio. Sciaguratamente, le terminai proprio il mattino del match e, a farmacie chiuse, dovetti rassegnarmi. Le cose non andarono affatto male se, dopo un avvio mediocre, vinsi un terribile long set 13 a 11, e controllai anche il terzo. Ma, giusto allora, il respiro si fece difficile, e decisi di rifugiarmi in spogliatoio, come consentiva il regolamento. Lì giunto, rimasi affranto su un divano, sinché qualcuno non ebbe ad offrirmi due dita di whisky: un sicuro rimedio, affermò, contro la mia allergia. Trangugiai, appena in tempo per tornare in campo. Subii una slavina di dodici games, un disastro mai capitato. Più di un commentatore scrisse che sembravo ubriaco». Crawford mi guardò, tra il rassegnato e il divertito. «Avevano ragione - continuò -. Da sempre ero astemio e, se aveva allontanato la crisi di allergia, quel whisky era giunto addirittura a sdoppiarmi la vista della palla». Non potei far altro che dichiararmi desolato, e ricusai l´offerta di uno scotch che, aggiunse la vittima, non avrebbe consumato con me. Sarebbero passati anni prima che due altri tennisti, l´americano Donald Budge e l´australiano Rod Laver, realizzassero la prodezza mancata da Crawford per due dita di bourbon. Gianni Clerici