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 2008  gennaio 27 Domenica calendario

La guerra dei pronomi nell´Italia in orbace. La Repubblica 27 gennaio 2008. Il primo febbraio del 1938 il segretario del Partito fascista, Achille Starace, decretò su sollecitazione del Duce la morte del "lei" giudicato dal regime "femmineo, sgrammaticato, straniero e servile"

La guerra dei pronomi nell´Italia in orbace. La Repubblica 27 gennaio 2008. Il primo febbraio del 1938 il segretario del Partito fascista, Achille Starace, decretò su sollecitazione del Duce la morte del "lei" giudicato dal regime "femmineo, sgrammaticato, straniero e servile". Tra camerati era richiesto l´uso del "tu", altrimenti si consigliava la seconda persona plurale. Molti i consensi del mondo letterario. Anni dopo, a qualcuno balenò il sospetto che si fosse esagerato... in principio c´è un articolo di giornale. uno di quei "pezzi" da terza pagina, che interessano - se va bene - un ristretto numero di letterati. Lo firma il romanziere fiorentino Bruno Cicognani. Il suo elzeviro, comparso il 15 gennaio 1938 nel Corriere della sera, non è, come al solito, ozioso. Emana invece aggressività. S´intitola «Abolizione del Lei». Questa paroletta, «lei» - rivela Cicognani - è turpe, infetta, esecrabile, disgustosa. E soprattutto antistorica. «Roma repubblicana», egli ricorda, «non aveva conosciuto che il "tu". La Roma cesarea poi conobbe il "voi"». Quel «maledetto lei» è di derivazione spagnolesca e cortigiana. «una mostruosità» che «si riallaccia a un inquinamento del costume, del senso morale, della ragionevolezza d´un popolo». Lo si cancelli subito. «La Rivoluzione fascista si è proposta di riportare lo spirito della razza alle sue antiche origini. Ebbene, si compia anche questa purificazione; si torni, anche in questo, all´uso di Roma, al "tu", espressione dell´universo romano e cristiano. Sia il "voi" segno di rispetto e gerarchia». L´articolo cade sotto gli occhi di Mussolini, che ne è conquistato e ordina ad Achille Starace di passare all´azione. Ecco che il primo febbraio il segretario del Pnf compila una di quelle «circolari» dallo stile inconfondibile che Dino Grandi, benché fascista fervente, definirà «sciocchi diktat». Si decreta che «fra camerati iscritti al Pnf viene abolito il "lei" e adottato il "tu". Tra gerarchi e gregari, nei casi in cui sussistano rapporti di subordinazione, è adottato il "voi". Tra le iscritte alle organizzazioni femminili e i fascisti sia adottato di norma il "voi"». Segue una pioggia di veline ad uso dei giornali. «Si facciano degli articoli sull´adozione del tu romano». «Non usare il lei nelle didascalie delle vignette, nelle novelle e ovunque si riportino scritti in forma dialogica». «Si ricorda di controllare attentamente affinché il tu ed il voi sostituiscano sempre il lei, straniero e servile». «Si pubblichi in palchetto una nota contro il lei del seguente tenore: "Abolite nei vostri rapporti personali il lei femmineo, sgrammaticato, straniero, nato due secoli or sono, in tempi di schiavitù"». «L´ordine del giorno del generale Ugo Cavallero agli Stati Maggiori e il telegramma del medesimo al Duce vanno corretti. Dov´è detto "in nome di Sua Maestà il Re Imperatore", deve dirsi: "In nome della Maestà del Re Imperatore"». Vittima incolpevole della campagna sferrata dal vertice è una rivista di attualità femminile, Lei, il cui editore modifica per prudenza il titolo di testata. Manifestazioni di consenso si levano dal mondo letterario. Sul Corriere il celebre filologo Giorgio Pasquali ammucchia pezze d´appoggio in favore del provvedimento. La scrittrice Ada Negri manda al direttore di Antieuropa - una testata di battaglia che raccoglie adesioni «di qualità» - una lettera in cui spicca la dichiarazione: «Io ho sempre, per istinto, preferito usare il "voi". La disposizione del Governo, ora, mi ha quindi trovata perfettamente a posto». Vasco Pratolini sentenzia: «Il "voi" è italiano per la pelle» e «il tu è veramente originale, d´una freschezza, d´una intimità e di un rispetto inconfondibili». Alberto Savinio s´intrattiene sui vizi del «pronome indiretto», insultandolo: «Il "lei" è lo strumento linguistico di coloro che hanno qualcosa da nascondere»; è «il ponticello ideale dell´ipocrisia»; «lei è colui che non guarda in faccia». Renato Simoni prevede che «tra breve i "lei" superstiti, accerchiati da tanti "voi", si arrenderanno e andranno a tenere compagnia ai "molto riveriti signori", ai "padroni colendissimi" e ad altre ossequiosità pallide e impolverate del passato». «Sia pace all´anima del "lei"», esclama la giovane Elsa Morante. Occorreranno quattro anni perché nelle alte sfere del regime baleni il sospetto d´aver esagerato. Lo fa pensare un ordine alla stampa impartito il 21 marzo 1942: «Non riprendere voci polemiche assurde contro un´asserita eccessiva diffusione del tu». Si manifesta, di fatto, qualche fastidiosa resistenza a quel provvedimento che sempre più spesso viene chiamato l´«editto di Tigellino» (con riferimento a uno dei soprannomi attribuiti al segretario del partito). Antonio Spinosa, biografo di Starace, sostiene che, secondo molti intellettuali, «il campione di quella resistenza era nientemeno che Benedetto Croce, il quale, pur avendo sempre usato il voi da buon napoletano, adesso s´era messo a dare del lei a tutti». Il regime tuttavia persevera. Non si sa se per precisa imposizione o per eccesso di conformismo, in alcune case editrici un apposito revisore è al lavoro per ridurre al "voi" i dialoghi che compaiono in romanzi e racconti. In varie città vengono allestite mostre anti-lei. In quella inaugurata a Torino campeggia la scritta: «A chi ti dà del lei ancora adesso - non dare il voi né il tu: - dagli del fesso». Passi per Starace, ma anche qualche gerarca di diversa consistenza culturale si dichiara concorde (ma forse finge) con l´imperante battage grammaticale. «Ora che la Rivoluzione ha ricostruito l´orgoglio nazionale» - ha scritto a botta calda la rivista di Giuseppe Bottai, Critica fascista, echeggiando alla lettera l´ormai proverbiale elzeviro del Corriere - «si ristabiliscano il "tu", espressione dell´universale romano e cristiano, e il "voi" in segno di rispetto e di gerarchia». comunque fatale che, intorno alla guerra dei pronomi fioriscano battute e prese in giro. Ecco una storiella che ricavo dal volume Fascisti di Giordano Bruno Guerri. Starace, pensieroso, si fa ricevere da Mussolini. «Nel Mezzogiorno», gli sussurra, «gli italiani usano il tu, al Centro e al Nord il lei. Ma purtroppo di Voi non ne vogliono sapere». Corre voce che in molte località della penisola corso Galilei è diventato corso «Galivoi» e che la città di Gradisca ha accettato di chiamarsi «Gradite». La bulimia propagandistica di Starace non contempla soste. Egli, che raccomanda ai camerati di «dormire con un occhio solo», è praticamente insonne. Sempre «in servizio». «A disposizione». Quando nel 1931 Mussolini lo ha nominato segretario del partito, Leandro Arpinati, sottosegretario agli Interni, ha obiettato: «Ma Starace è un cretino». «Lo so», è stata la risposta del Duce, «ma è un cretino ubbidiente». Ne offrono una riprova le altre due direttive che si aggiungono alla campagna sul lei: l´imposizione del saluto fascista con il braccio teso in alto e quella del «passo romano», che in realtà è un´imitazione del modo di marciare adottato dai nazisti su modello prussiano. Secondo il segretario del partito, sono bastate poche settimane perché simili provvedimenti entrassero nel costume nazionale. «Il saluto romano è ormai di uso comune», egli scrive in un foglio di disposizioni trasmesso ai segretari federali. «Tutto il popolo lo ha adottato». E continua: «La stretta di mano, specie nelle cerimonie ufficiali, deve essere assolutamente abolita» perché «è antiestetica, serve a far perdere del tempo, oppure è causa di disagio per le inevitabili esclusioni che ne derivano». Considerazioni ripetute in forma di divieto in un´ennesima velina ai giornali (21 novembre ”38): «Non pubblicare fotografie con strette di mano, anche se tali strette siano fatte tra altissime personalità». Tra le foto di cui si vieta la pubblicazione - riprodotte in un volume recente a cura di Mimmo Franzinelli ed Emanuele Valerio Marino - ce n´è infatti una in cui Mussolini dà la mano ad Hitler e un´altra nella quale egli stringe, con un inchino, quella di Vittorio Emanuele III. Immagini che farebbero scandalo. «"Dedito alla stretta di mano"», si legge in una minacciosa direttiva staraciana, «ecco la nota caratteristica da segnare nella cartella personale di chi persiste in questa esteriorità, rivelatrice, quasi sempre, di scarso spirito fascista». Gli italiani continuano - come dubitarne? - a stringersi la mano. Ma di nascosto. D´altronde, come sempre capita ai missionari, l´ansia punitiva del segretario colpisce per primi quelli del proprio «ordine»: egli - come ricorderà Giovanni Ansaldo - ha imposto «ai federali, ansiosi del suo favore, prove da circo equestre». E quelli, un po´ inciampando, eseguono. In maniera meno pacifica è stata accolta l´adozione del passo dell´oca. Lo rivela Galeazzo Ciano in una pagina del suo diario. «31 gennaio 1938. Com´era da prevedere sono cominciate le polemiche contro il passo di parata. Soprattutto i vecchi militari sono contrari, perché vogliono riconoscervi un´iniziativa prussiana. Il Duce reagisce con violenza e mi ha letto il discorso che pronuncerà domani per spiegare ed esaltare l´innovazione». Poiché «pare che anche il Re si sia espresso in senso contrario», prosegue Ciano, «il Duce dice: "Non ho colpa io, se il Re è fisicamente una mezza cartuccia. naturale che lui non potrà fare il passo di parata senza essere ridicolo. Lo odierà per la stessa ragione per cui ha sempre odiato il cavallo, dato che deve salirvi con la scaletta. Ma la deficienza fisica di un sovrano non è una buona ragione per minimizzare, come ha fatto, l´esercito di un grande Paese"». Per il grande Paese e per il suo esercito - viene spontaneo ricordarsene - si preannunziano in quel 1938 prove difficili, nelle quali di dubbia efficacia si rivelerà il passo dell´oca. Nello Ajello