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 2008  gennaio 27 Domenica calendario

Le parole ringhio di chi comanda. La Repubblica 27 gennaio 2008. «pensiamo a un delegato sovietico che usa la parola "democrazia" a un dibattito delle Nazioni Unite

Le parole ringhio di chi comanda. La Repubblica 27 gennaio 2008. «pensiamo a un delegato sovietico che usa la parola "democrazia" a un dibattito delle Nazioni Unite. Possiamo dare alle nostre parole qualunque significato decidiamo? Abbiamo degli obblighi nei confronti degli usi del passato?». A porsi tali domande, a metà del Novecento, era Roger W. Holmes, un logico americano che stava commentando un passo di Alice dall´altra parte dello specchio del suo collega inglese Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carroll. Alice protesta contro il modo di parlare di Humpty-Dumpty, che le risponde: «Quando io uso una parola, questa dice esattamente quello che le faccio dire io, né più né meno». «Il problema è se lei può far dire cose tanto diverse a una parola», controbatte Alice. E lui, glorioso: «Il problema è chi comanda, ecco tutto». Chi comanda, fra parole e parlanti? Il logico Holmes concludeva abbastanza salomonicamente che, se in un certo senso non fossero le parole a comandare su di noi, la comunicazione sarebbe perfettamente impossibile; ma se in un altro senso non fossimo noi a comandare sulle parole, allora a essere impossibile sarebbe la poesia. E naturalmente, si può aggiungere, la propaganda sovietica, e la sua nozione - paradossale - di «democrazia». Nel Novecento di Orwell e di Starace, chi ha dominato i parlanti si è sempre regolarmente convinto di comandare con ciò anche le parole. A ognuno la sua neolingua: campagne nazionalistiche e xenofobe, oppure a favore di acronimi, eufemismi, denominazioni propagandistiche, creazioni di tabù e slogan. L´idioma hitleriano, quella Lingua Tertii Imperii o LTI studiata dal filologo ebreo Victor Kemperer, imponeva fra le altre deformazioni il sintomatico uso positivo di «fanatico», in sostituzione di «eroico»: disegnava con ciò una platea in ascolto, più che in parola, capace di assumere con fideismo assoluto il discorso del potere e di riprodurlo senza mai passare dai fatti. Le dolenti note lessicali di Primo Levi ci hanno raccontato la portata eufemistica del linguaggio nazista (ma anche le frequenti concordanze fra il «Lagerjargon» e il linguaggio dell´Arcipelago Gulag): «soluzione finale» (lo sterminio), «trattamento speciale» (camera a gas), «unità di pronto impiego» (plotoni per esecuzioni di civili in massa). Una disinfezione linguistica, che allontanava la realtà dal linguaggio per impedirne la registrazione, la memoria. Di questi esperimenti rimangono alcune cicatrici. Forse l´imbarazzo verso qualsiasi tentativo di politica linguistica che pur meritoriamente voglia difendere lingue naturali destinate all´oblio e lingue nazionali minacciate dalla globalizzazione; forse il fastidio verso le esagerazioni della politesse quando sfocia nella politically correctness. Ma forse, e più sottilmente, anche un senso di impotenza rispetto ai nuovi Humpty-Dumpty, meno truculenti ma non molto meno prepotenti dei dittatori del passato. Proprio Primo Levi ne dà una traccia quando racconta di un incidente persino ameno in cui incorse nel dopoguerra. Direttore di una fabbrica di vernici, dopo un incontro di affari con «alcuni educati funzionari della Bayer», li congedò con una forma linguistica inusuale: «Jezt hauen wir ab». «Era come se avessi detto: "Ora ci togliamo dai piedi". Mi guardarono stupiti: il termine apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si era svolta la conversazione precedente (...). Spiegai loro che non avevo imparato il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne nacque un certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore, continuarono a trattarmi con cortesia». L´appunto finale spalanca le porte alla nuova pragmatica della comunicazione: chi compra può dire quel che vuole. Perché sappia cosa volere è necessario che il suo linguaggio sia fondato su parole-icone, simboli svuotati e ripetibili, associati a connotazioni positive, a prodotti e a personaggi. Nella comunicazione commerciale, di cui quella politica è una branca specializzata, si ripetono termini-carezza - «libertà», «vita», «valori», «famiglia», «tu» - ma anche termini-ringhio - «cialtrone», «loro», «vaffanculo» - che sarà poi faticoso e inutile precisare e riportare al loro valore letterale. Senza necessità di proclamare alcun Quarto Impero, il linguaggio odierno genera con beata impunità i suoi eufemismi: l´ultimo rifugio della dissidenza è forse l´etimologia. Stefano Bartezzaghi