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 2008  gennaio 27 Domenica calendario

E Totò baciò metà dei siciliani. Corriere della Sera 27 gennaio 2008. L e 340 madonnine e crocefissi e statuette votive varie avute in dono il giorno in cui ricevette l’avviso di garanzia per favoreggiamento di un po’ di mafiosi non sono dunque riusciti nel miracolo (pagano) di salvare Totò Cuffaro dalle dimissioni

E Totò baciò metà dei siciliani. Corriere della Sera 27 gennaio 2008. L e 340 madonnine e crocefissi e statuette votive varie avute in dono il giorno in cui ricevette l’avviso di garanzia per favoreggiamento di un po’ di mafiosi non sono dunque riusciti nel miracolo (pagano) di salvare Totò Cuffaro dalle dimissioni. Potete però scommettere che ieri, dopo l’addio all’amatissima e insieme maledetta poltrona, il governatore ha cominciato a ricevere nuovi crocefissi e statuette e Madonnine. Testimonianze di affetto. Perché tutta la sua vita è in fondo riassumibile in un paradosso: certe cose che sembrano normali al «suo» popolo di elettori e amici appaiono agli occhi di milioni di italiani mostruose e certe cose che sembrano a tanti altri mostruose appaiono ai suoi del tutto «normali». Sempre stato così. Fin dall’autunno del 1991 quando era in platea a Samarcanda in staffetta col Costanzo Show e tanto urlò e strepitò che Michele Santoro gli porse il microfono. Al che, lui, aggiustata la cravatta, protestò che eran tutte «buffonate» e che era «in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore della Dc in Sicilia» e che quello era un «giornalismo mafioso» che faceva «più male alla Sicilia che dieci anni di delitti». Davanti al televisore, ignaro della bruttissima fine che lo attendeva, sorrideva soddisfatto il massimo rappresentante di quella «classe dirigente migliore» isolana, Salvo Lima. Sul palco, attaccato direttamente, scuoteva sconfortato la testa Giovanni Falcone, che di lì a pochi mesi sarebbe stato assassinato. Fu quella sera che i telespettatori scoprirono Totò. E se tanti, al di qua dello Stretto, restarono sbalorditi da quel giovanotto paffutello che si assumeva l’onere di difendere l’indifendibile, tanti altri, di là dello Stretto, si ritrovarono in sintonia con quello sconosciuto in camicia che urlava in difesa dell’onore dei notabili siciliani vittime di «giudici corrotti» e di «un pentito volgare», cioè Tommaso Buscetta, «solo perché serve al Nord». Fu quella sera che svoltò, la carriera politica di Salvatore Cuffaro da Raffadali, laureato in medicina, «dottore» all’ambulatorio dei ferrovieri, destinato a diventare in una manciata di anni l’uomo forte dell’isola. Una carriera rapidissima. Giocata tutta sulla straordinaria flessibilità che gli permise, nella legislatura più incerta, di restare assessore all’Agricoltura mentre si ripetevano i ribaltoni e prima governava la destra e poi la sinistra e poi ancora la destra. Lui ci rideva su: «Cuffaro viene dall’arabo: kufur. Vuol dire infedele». E precisava: «Solo che per loro significava colui che si era convertito al cristianesimo. E questo sono: un cristiano e un democristiano». Abbinamento per lui indissolubile. Al punto di sfidare le ironie altrui passando il giorno della vigilia delle ultime elezioni, invece che in una girandola di comizi, al santuario di Maria Santissima dei Miracoli di Collesano. O di offrire solennemente Trinacria alla «Bedda Madri». O di tirare in ballo la Madonna tante di quelle volte che un giorno i suoi 23 addetti stampa diramarono un «errata corrige» immortale: «Si rispedisce il comunicato sulla giunta di governo in quanto per un errore di battitura è stato scritto il "parco delle Madonne" al posto di "parco delle Madonie" ». Convinto che fare politica sia innanzitutto costruire una capillare rete di rapporti, un giorno mostrò al vostro cronista un fascicolo alto quattro dita: migliaia di nomi, indirizzi, numeri di telefono e «speranze ». Spiegò che li conosceva e li ricordava tutti. Uno ad uno. Il barbiere, il salumiere, l’edicolante di Ustica e quelli di Siculiana e di Misilmeri e di Lampedusa. «La mia porta è sempre aperta e dunque bussano in tanti – confidò a Sebastiano Messina di Repubblica ’. Viene padre Lo Pinto e mi invita alle prime comunioni e alle recite teatrali, io ci vado e lo aiuto a costruire il palco. Quando arrivano le elezioni è lui che mi chiama e poi siede accanto a me dicendo ai parrocchiani: "Totò è amico nostro, è cresciuto con noi, votiamolo". Anche le suore sono con me...». Clientelismo? «Se intende "clientelismo" nel senso dispregiativo, è una parola che mi fa schifo. Se intende stare ad ascoltare gli amici...». A Fabio Martini, de La Stampa, disse che il suo era «uno straripante bisogno di affetto: bisogno di averlo e bisogno di darlo». Su questo, spiegò, aveva fondato il suo potere: «Prima viene il rapporto umano, poi si costruisce quello politico». Va da sé che bacia, bacia, bacia tutti. Mica per altro si è guadagnato quel soprannome: «Vasa Vasa». Un nomignolo che un po’ lo irrita, un po’ gli piace: «Senza presunzione», ammiccò a Federico Geremicca prima delle ultime elezioni, «posso assicurarle che credo di avere stretto le mani e baciato sulle guance, in segno di affetto, la metà dei siciliani». Il suo padrino politico Calogero Mannino chiarì, citando Il Gattopardo, che non si trattava di banali «sbaciucchiamenti» ma di «argomenti politici». Certo è che negli anni, a parte le frecciate degli alleati («Nessuno si avvicina alla capacità clientelare di Cuffaro», rise Gianfranco Miccichè: «Uso il termine clientelare non in senso negativo ma perché gli riconosco la capacità di lavorare condominio per condominio») questo «ecumenismo elettorale» gli ha portato pure un sacco di guai. Prima fra tutti, appunto, l’accusa di non avere avuto puzze sotto il naso verso uomini chiacchierati: «Incontro non meno di 300 persone al giorno, e se qualcuno ha rapporti con la mafia che diavolo ne so?». Men che meno, dice, sapeva che il nome di Michele Aiello, padrone della clinica Santa Teresa di Bagheria era stato trovato (lo scrivono anche Barbacetto, Gomez e Travaglio in Mani sporche) tra i «pizzini » sia di Totò Riina sia di Bernardo Provenzano. «Ma non le sembra quanto meno inopportuno che un presidente della Regione discuta del tariffario delle prestazioni sanitarie in un negozio di abbigliamento di Bagheria?», gli chiese Francesco Foresta, autore di una biografia del governatore dimissionario. E lui: «Sono abituato ad ottimizzare al massimo il mio tempo. L’ingegnere Aiello aveva minacciato di chiudere la sua struttura se non si fossero risolti i problemi legati al tariffario ». Anche Aiello «ottimizzava », sul tariffario. Basti dire che il trattamento per il tumore alla prostata con «terapia conformazionale statica a sei campi» veniva pagato dalla Regione 136 mila euro e costava allora a Milano (e oggi anche a Bagheria) diciassette volte di meno: 8.093. Difficile ottimizzare di più. Gian Antonio Stella