Ventiquattro 1 febbraio 2008, Adam Gopnik, 1 febbraio 2008
Capolavori al taglio. Ventiquattro 1 febbraio 2008. Oggi parliamo di addizione e sottrazione, di tagli e allunghi, e delle relative conseguenze per le opere d’arte e d’intrattenimento
Capolavori al taglio. Ventiquattro 1 febbraio 2008. Oggi parliamo di addizione e sottrazione, di tagli e allunghi, e delle relative conseguenze per le opere d’arte e d’intrattenimento. Che cosa si può eliminare da un libro o da un film, cosa gli si può aggiungere, e cosa impariamo dai cambiamenti operati? La prima forma da considerare è la sottrazione, ovvero quel che si potrebbe più pomposamente definire l’estetica dei taglio e dei riassunto, cosi come viene illustrata da una nuova e ambiziosa collana di classici in versione compact, pubblicata dall’editore britannico Orion. «I grandi classici contengono storie appassionanti, avventure mozzafiato, personaggi avvincenti, scene e situazioni indimenticabili», informa una nota esplicativa. Il problema è trovare il tempo di leggerli». Sicché Orion ha preso alcuni capolavori del Diciannovesimo secolo - tra gli altri, Moby Dick, Anna Karenina, La fiera delle vanità e Il mulino sulla Floss - e li ha bellamente tagliati a metà, come l’artista Damien Hirst con gli animali, per farne letture agevoli, veloci, e tanto più mirabili. Nonostante il tono baldanzoso della copertina e del retro, del tutto scevri da intenti apologetici, i nomi degli autori dei tagli vengono misteriosamente taciuti, il che fa sorgere il sospetto che, con il pudore dei pornografi d’antan, essi non vogliano venire così apertamente associati a questo progetto, come lascerebbe invece intendere la sicumera dell’editore. Chi ha circonciso Moby Dick? Chi ha tolto le futili vanità dalla Fiera? Chi ha ficcato Anna sotto il treno un centinaio di pagine prima del consueto? Orion non ce lo dice. E sì che il lavoro deve avere richiesto dosi considerevoli di tatto e discernimento. Prendiamo Moby Dick se non tutti i lettori si sono mai augurati che fosse più breve, perlomeno, come diceva Samuel Johnson a proposito del Paradiso perduto di Milton, nessuno l’ha certamente mai desiderato più lungo. il primo capitolo dell’edizione compact è esemplificativo dell’approccio di Orion. il celebre capoverso iniziale e il famoso primo capitolo sono presentati per la maggior parte così come Melville li ha scritti. Nessun elemento funzionale è stato alterato. Diversamente da quanto accade, ad esempio, nelle moderne versioni di Shakespeare curate da A. L. Rowse, qui non si tenta di migliorare il vocabolario dell’autore o di semplificarne l’intricata, ritorta sintassi. Ismaele ci chiede di chiamarlo per nome, e la storia va avanti. Quel che è stato eliminato dal primo capitolo sono due lunghi passi che prendono le mosse dai tratti specifici di Ismaele: una riflessione sulla gente che guarda le barche a Manhattan e sul fascino esercitato dal mare anche in città. Secondo gli attuali parametri critici, questi passaggi costituiscono "ostentate digressioni", ansiosamente tese a mettere in mostra un insieme slegato di nozioni e a rendere un’oscura allusione più efficace dell’emozione intrinseca. Lo stesso si verifica nei capitoli successivi. La storia di Melville è intatta, immediata; sono spariti solo i lunghi passi sui dettagli tecnici della caccia alla balena, così come la maggior parte degli interludi simil-shakespeariani, le contorte speculazioni filosofiche e i dialoghi astrattamente metafisici. Proprio per questo, il MobyDick di Orion non è sfigurato; secondo i criteri correnti di editing e critica, il libro è migliorato. L’edizione compact corrisponde a una specifica concezione di come dovrebbe essere un "buon" romanzo: l’estetica contemporanea dei realismo psicologico. Non è esattamente quel che farebbe del libro uno sprezzante filisteo. quel che ne farebbe un buon editor, uno alla Maxwell Perkins, per intenderci: tagliare via tutte le tirate masturbatorie e presentare una storia pulita, con personaggi plausibili - il genere di esposizione "tesa, spoglia e coinvolgente" tanto amata dai recensori dei supplementi domenicali. Ci si può benissimo immaginare il tono confortante della lettera di accompagnamento alla versione tagliata, se l’autore fosse vivo: «Herman, abbiamo fatto solo qualche piccolo taglio qua e là; personalmente trovo affascinanti le digressioni sulla caccia alla balena, ma temo che i lettori vogliano andare avanti con la storia. E francamente la tensione narrativa è smorzata da tutto quel materiale slegato che ci porta fuori dal seminato. Si vede che hai fatto un sacco di ricerche! Senti cos’ha suggerito qualcuno in redazione l’altro giomo: perché non facciamo un’appendice in cui convogliamo tutto questo ricco, affascinante materiale miscellaneo sulla caccia alla balena, in modo che sia disponibile per i lettori che lo desiderano, ma senza interferire con il corso della storia?». Solo gli anni passati a inculcarci in testa il capolavoro ci causano qualche esitazione. E a ragion veduta. Perché quando si arriva alla fine del Moby Dick compact, non viene da pensare «Che tradimento»; viene da pensare «Bravi, ben fatto. Cos’è già che hanno tagliato?». E quando si toma indietro a cercare i passi eliminati, toma in mente la ragione per cui Moby Dick non è solo un’avventura emozionante con personaggi indimenticabili, ma un autentico capolavoro. La sottrazione non fa di un buon libro un’operazione pedestremente scolastica: trasforma un capolavoro ineffabile, un po’ folle, in un libro coi piedi per terra. Un libro che conserva le sue impennate falliche, ma che ha perso la mollezza dell’ansia autoriferita: è tutto Dick, e niente Moby. Proprio come il "Moby Dick in metà tempo" ci risparmia le digressioni e l’ostentato sapere di Melville, l’edizione compact della Fiera delle vanità alleggerisce Thackeray dei preziosismi, i verbosi commenti intersecati all’azione che deliziavano i lettori di epoca vittoriana. Ad esempio, in un capitolo intermedio intitolato "Dove Amelia invade i Paesi Bassi", il tono colloquiale e intimo di Thackeray viene trasformato in una versione più asciutta, tipica della "buona scrittura". La scena si svolge mentre Amelia sta per arrivare a Bruxelles alla vigilia di Waterloo; la prosa descrittiva di Thackeray è conservata per lo più intatta («Questo paese piatto, fiorente, semplice, non avrebbe potuto apparire più ricco e prospero che nell’estate del 1815»). Nell’originale, però, Thackeray fa precedere questa descrizione da un loquace capoverso: «Ma si potrebbe dire a mo’ di regola, che ogni suddito inglese nell’esercito dei duca di Wellington pagò a modo suo. Di certo la rimembranza di un tale fatto si evolve in una nazione di commercianti. Fu una benedizione per un paese amante dei commercio quella di essere invaso da un tale esercito di clienti; e di avere da nutrire dei così validi guerrieri. E il paese che essi venivano a proteggere non è militare. Per un lungo periodo di storia, essi hanno lasciato che altri vi combattessero». E così via, in una vena analogamente intima, da lettera al lettore. Persino un lettore propenso all’empatia come Edmund Wilson odiava le interminabili digressioni di Thackeray e le continue intrusioni di pallide ironie. Ma senza le storielle e senza i voli pindarici, Thackeray diventa un altro, diventa un autore privo di mordente - troppo concentrato sulla storia da raccontare. Il senso sta in ciò che è marginale. Thackeray non vuole forzare il lettore, vuole conquistarne gradualmente la fiducia. Agli scrittori accade da sempre di vedere le proprie opere tagliate - che ci metta mano un editor o un curatore postumo - ma quasi mai un romanzo viene allungato. L’edizione di NewYork di Henry James aggiunge i merletti del tardo James all’ordito del James di mezzo, ma le cuciture sono sempre evidenti. In genere, in fase di pubblicazione, l’autore si può trovare a dover tagliare qualche parola, mai ad aggiungeme. Per l’estetica dell’addizione, dobbiamo guardare al cinema. Possiamo analizzarla nell’"edizione del regista" offerta tra le opzioni speciali dei dvd che costituiscono l’attuale unità di misura dei cinema, la forma in cui effettivamente la gente vede i film. L’edizione del regista non è un taglio ma un allungo, il mero reinserimento di tutto ciò che executive e idioti vari riuniti insieme l’hanno obbligato a eliminare. Eppure accade spesso che il materiale reinserito sia ridondante e rallenti la storia. Anche quella sorta di capolavoro che è Apocalypse now di Francis Ford Coppola, nella versione allungata, presumibilmente perfezionata, risulta noioso, verboso e confuso, e perde quella implacabile concentrazione sul tema a vantaggio di incontri erotici con playmates di «Playboy» e misteriose donne della Francia coloniale, inserti piacevoli ma un po’ campati in aria. Per quanti spezzoni si possano reinserire, nessuno può redimere la stupida pesantezza del simbolismo alla fine del film (e nemmeno può restituire leggerezza a un attore pesante). Quel che si percepisce nell’"edizione del regista" non è tanto l’addizione, l’aggiunta di nuovi dettagli, quanto una mera espansione pettorale: è lo stesso numero di respiri, solo rallentati. La ricerca di aggiunte significative ci porta, infine, ai commenti del regista, che possono conferire profondità, ironia e contrappunto persino a un film mediocre. i commenti riflettono un genere organico; tra gli addetti ai lavori dei cinema, il "monologo apologetico-rabbioso" è la forma più diffusa di pettegolezzo professionale. Non c’è niente di cui la gente del cinema ami parlare così tanto come di quanto il loro film sia stato rovinato dalla produzione o dalla star di turno. Questi monologhi sono spesso più interessanti dei film cui si riferiscono; più interessanti persino di quanto i suddetti film avrebbero potuto essere se fossero stati realizzati come avrebbe voluto il regista. Sono affascinanti in un modo in cui non potrebbero esserlo il resoconto delle ragioni per cui non si è entrati in classifica o per cui il proprio libro non ha venduto, perché tutti i film, tranne i peggiori, comportano non solo un’aspirazione al successo, ma un reale faccia-a-faccia con i propri impulsi: c’è una spinta ideale verso l’arte e un impulso realistico al commercio, e il conflitto tra i due, per quanto inevitabile ne sia l’esito, costituisce il naturale materiale drammatico. questo il dramma reale che ci viene offerto dall’estetica aggiuntiva dei dvd. Un ottimo esempio è costituito da quello shockante ed elegante psico-thriller che è The Cell (La Cellula). la storia di un serial killer che rapisce donne e le imprigiona in una cisterna, annegandole lentamente, e che viene sconfitto da Jennifer Lopez, una psicoterapeuta capace di penetrargli la mente (sic). Il regista, Tarsem Singh, è un indiano veterano dei video musicali; e ben presto viene a galla la ragione per cui un film sul tentato annegamento di una ragazza risulta stranamente scevro di emozioni. «Non riusciva ad andare sott’acqua senza tenersi il naso!», sbotta Singh, pochi minuti dopo che la futura vittima appare galleggiante nella mortifera cisterna. Spiega di avere punito l’attrice, rea di non avere tenuto fede alla promessa di nuotare disperata nella sinistra cisterna; la punizione consiste nell’averle negato i primi piani. «Tutto quello di cui avevo bisogno era di intendermi con lei», dice in tono di rimpianto. «Non ce la facevo, ero cosi ferito». Oppure, a un livello più alto, prendiamo il sobrio Hollywoodland di Allen Coulter, l’intelligente eppure incredibilmente vuota storia di come il Superman televisivo degli anni Cinquanta, George Reeves, si uccise o rimase ucciso in uno scandalo hollywoodiano di second’ordine (storia che si avvale della brillante recitazione di Diane Lane, Bob Hoskins e Ben Affleck). L’origine dello strano tono del film - "la Babele di Hollywood", per dirla in termini da tesi di dottorato - appare evidente quando si guarda il film con i commenti di Coulter. Il quale si rivela un artigiano erudito, di immensa serietà, molto preoccupato degli effetti. «Avevo in mente il teatro giapponese No, che comincia con un rullo di tamburo da un lato», dice il regista dell’altrimenti ordinario incipit del film; dopo di che, ogni effetto è registrato e calcolato con una precisione che farebbe arrossire persino Henry James. Adrien Brody impersona un detective che indaga sulla scomparsa di Reeves. il regista discute sulla lunghezza dei capelli di Brody con indignato fervore; sembra che qualcuno li abbia paragonati a quelli di Eddie Cochran, là dove, in realtà, «i capelli di Brody sono lunghi esattamente come quelli di James Dean». Effetti sonori a malapena percepibili sono minuziosamente passati in rassegna per le loro significative implicazioni; viene fuori che alle comparse, aggiunte in fase di post-produzione, è stato permesso di mormorare solo di fatti effettivamente accaduti nel 1959. Ogni istante del mixaggio, ogni cambio di luce (dal «Kodachrome sbiadito» della storia di Brody al saturato degli spezzoni con Affleck), ogni discreta genuflessione a un altro film viene amorosamente schedata («solo un piccolo omaggio a una grande inquadratura in Chinatown, uno dei miei interventi preferiti in tutto il film»). Apprendiamo che il regista ha tracciato "un diagramma" per la masticazione dei chewing-gum, per sottolineare la traiettoria drammatica lungo cui il personaggio di Brody mastica o non mastica la gomma, rivelandone in tal modo la crescita morale. L’attenzione ai dettagli è stupefacente - prima o poi, Coulter farà un grande film - ma l’effetto complessivo di tutto questo appassionato perfezionismo è di suggerire una forma di auto-inganno: l’artista ha perso di vista la cosa più ovvia per lo spettatore, e cioè il fatto che la storia raccontata è troppo insignificante per trattenere l’attenzione di una persona per il tempo necessario a raccontarla. Per scavare ancora più a fondo nello strano pathos della narrazione retrospettiva, prendiamo il film di James Bond 007 Il mondo non basta, in cui l’agente segreto è impersonato per la terza volta di fila da Pierce Brosnan. Il regista è il documentarista inglese Michael Apted, uomo di autentico talento, la cui serie Seven Up, che ha documentato l’evoluzione di un gruppo di scolari britannici di varia provenienza sociale dall’infanzia all’attuale maturità, verrà ricordata come uno dei classici del nostro tempo. Apted, che ha rispetto per gli attori e senso del reale, non poteva - e ancor oggi non può - adeguatamente piegarsi a quella sorta di stilosa gravità, sciocca ma rigorosa, eppure di per sé serissima, richiesta da un film di James Bond. «L’azione mozzafiato, che fa accapponare la pelle - annuncia quieto il regista introducendo alcune sequenze iniziali - finisce per stufare il pubblico», un motto non propriamente credibile per il regista di un film di James Bond. E ancora: «Le sparatorie possono diventare estremamente noiose: rumorose e ripetitive». Realizziamo ben presto che Apted è stato chiamato per dare un po’ di «peso» alle performance, con il risultato che le sequenze di azione finiscono all’improvviso, interrotte dalla recitazione pesante, tutta sospiri, fuori registro, di Sophie Marceau nei panni dell’eroina e del volenteroso Pierce Brosnan in quelli di James Bond. Apted pondera intelligentemente gli sviluppi della dinamica della relazione Elektra-Bond, e formula sapienti, erudite osservazioni sulla «vulnerabilità» del «cattivo». il problema è che Apted continua a cercare di fare un buon film nella maniera sbagliata. Arriva una pupa con cui Bond andrà a letto, e Apted osserva gentilmente che è una bravissima attrice. Ma noi vogliamo che una pupa di James Bond sia una brava attrice? Un regista che la immagina come una degna erede dell’arte di Tespi sarà forse un uomo migliore di uno che la vede come un accessorio con le tette. Di sicuro, però, è peggiore come regista di un film di James Bond. Quando finalmente veniamo a una noiosa e pressoché incomprensibile sequenza con un sottomarino, che mette fine al film, Apted è spossato quasi quanto lo spettatore. Dice, con un filo di voce: «Ho inserito un sacco di luci, pulsanti, spie luminose e quant’altro». tutto sirene e oggetti di un rosso brillante intermittente, privi di significato. l’effetto d’insieme ricorda quello di un divertente romanzo di Malcolm Bradbury sulla tormentata vita interiore di un regista di documentari, serio e molto ammirato, che si trova a girare un film di James Bond. L’accoppiata di commento sensibile e film cinico costituisce qualcosa di molto prossimo a un’opera d’arte: la storia di un uomo con una coscienza complessa e un sottomarino da affondare. Il commento conferisce al film uno sfaccettato punto di vista, un distacco, un’alienazione, un bizzarro gioco di ribalta e sfondo, il tono sommesso del sottile disagio e del rimorso retrospettivo che noi associamo al romanzo classico moderno. Questi commenti ci rivelano che i film che vediamo sono già versioni accorciate di storie più lunghe di ambizione e intelligenza, stroncate o premiate. il film allungato ci insegna la stessa lezione del libro accorciato: l’arte non è tanto questione di narrativa fluida e pulita quanto di narratori problematici. La letteratura occidentale non comincia con la guerra di Troia, ma con l’annuncio del poeta che si accinge a raccontarci la storia della guerra di Troia. la consapevolezza dello scopo, non la trasparenza dell’azione, che infiamma un poema. La questione dell’intrattenimento popolare non riguarda la mancanza di storie abbastanza forti, ma il fatto che non ci siano narratori abbastanza deboli: non ci sono abbastanza Ismaeli, le cui malate attenzioni, i cui sospiri accumulati e i retropensieri danno vita ad Achab. Un film ha bisogno dei suo Thompson tanto quanto del suo Kane (Thompson? Chi era costui? il reporter vagante che fa funzionare la storia di Orson Welles; nessuno ricorda il suo nome, ma senza di lui non c’è Rosabella, e non c’è Quarto potere). L’aggiunta di questa seconda irritante, attenta presenza è ciò che separa l’artigianato dall’arte, l’edizione compact dall’opera compiuta; è la garanzia che, per quante sottrazioni o addizioni i curatori possano operare, la mente dello spettatore continuerà a dividere e moltiplicare. Adam Gopnik