Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  febbraio 02 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 4 FEBBRAIO 2008

Domani 22 stati americani (tra questi alcuni dei più popolosi: California, New York, Illinois, New Jersey) esprimeranno il loro voto nelle primarie americane in quello che viene chiamato ”Super Tuesday” (Supermartedì). I repubblicani sceglieranno il 41% dei propri delegati alla Convention di Minneapolis (1-4 settembre) i democratici il 52% per la propria convention di Denver (25-28 agosto). Tra delegati (gli eletti nelle primarie) e superdelegati (senatori, deputati e dirigenti del partito), alla convention repubblicana parteciperanno infine 2.380 delegati, i democratici saranno 4.049. [1]

Marco D’Eramo: «La scrematura è finita. Dopo sei primarie, le seconde linee si sono tutte ritirate». [2] Al momento, la situazione è questa: tra i repubblicani è in testa John McCain (senatore dell’Arizona), seguito da Mitt Romney (ex governatore del Massachusetts, mormone) e Mike Huckabee (ex governatore dell’Arkansas). Tra i democratici comanda Hillary Clinton (senatore dello stato di New York, ma soprattutto moglie di Bill ed ex first lady) tallonata da Barack Obama (senatore di colore dell’Illinois). Attenzione però: Obama ha preso alle urne più delegati della Clinton, ed il netto svantaggio tra i superdelegati può essere ribaltato: sono ancora in tempo infatti per cambiare idea, cosa che spesso fanno quando sentono che nel Paese tira un’aria diversa. [3]

Comunque vada a finire, sul fronte democratico si sono affermati come candidati presidenziabili una donna e un afro-americano. Massimo Teodori: «Un evento che per entrambe le personalità sarebbe stato inconcepibile trenta o quaranta anni fa. Infatti solo a metà degli anni Sessanta la minoranza nera ha conquistato i diritti civili pieni dopo anni di dure lotte nelle regioni meridionali dove vigeva il segregazionismo e l’esclusione dal voto. Ed anche le donne solo negli anni Settanta hanno potuto guadagnare un ruolo pubblico pieno in politica come nella società grazie all’azione dei movimenti femminili». [4]

Il 26 gennaio, in South Carolina, nello scontro tra razza e genere la prima si è dimostrata più forte del secondo. D’Eramo: «Il 78% dei neri ha votato per Obama, mentre il 76% degli elettori bianchi ha votato per i due candidati bianchi (36% a Hillary e 40 % a Edwards). La linea del colore è quasi invalicabile, né poteva essere altrimenti in uno stato in cui la bandiera sudista sventola ancora sul prato del Campidoglio locale». La prevalenza della razza sul genere è dimostrata soprattutto dal voto delle donne nere che hanno votato Hillary al 19%, come i loro uomini, smentendo le incertezze della vigilia e le speranze dei Clinton. [5]

Il voto femminile nel suo complesso è stato molto meno generoso per Hillary del voto nero per Obama: per la senatrice di New York hanno votato solo 3 donne su 10 (4 su 10 bianche 2 su 10 nere). D’Eramo: «Ma c’è un altro dato che fa suonare un serio campanello di allarme e che contraddice almeno in parte il peso soverchiante della razza sul genere: ed è che i - notoriamente razzisti - maschi bianchi del South Carolina hanno votato in misura uguale per Obama e per Hillary: ovvero che in loro la ripugnanza di genere ha pareggiato i conti con quella di razza. Ecco uno degli ostacoli più formidabili che Hillary ha di fronte a sé: l’entusiasmo che accende tra le donne è minore della ripulsa che suscita tra i maschi». [5]

I duellanti democratici sono in disaccordo su vari argomenti. Ad esempio sulla Sanità: il piano di Hillary darebbe l’assicurazione medica a tutti gli americani, quello di Obama ne lascerebbe scoperti quasi 15 milioni. Lo scontro si gioca anche sull’atteggiamento verso l’Iraq. Hillary punta sull’esperienza e sostiene che «è importante avere un presidente in grado dal primo giorno di raccogliere le sfide e cominciare a risolvere i problemi», Obama rovescia l’argomento ricordando che con il voto al Senato del 2002 la rivale autorizzò la guerra contro Saddam: «A novembre sarà più facile per noi vincere l’argomento, se avremo un candidato in grado di dire: ”Ho pensato e detto sin dall’inizio che invadere l’Iraq era una cattiva idea”». [6]

La Clinton punta sul voto degli ispanici, il 14 per cento circa dell’elettorato totale, ma il 33 in California. E non fa mistero di contare sulla rivalità tra neri e latinos americani, «brown versus black» (marroni contro i neri), già decisiva in Nevada. Sergio Bendixen, tra i responsabili della campagna di Hillary: «L’elettore latino, e voglio dirlo con molta cautela, non ha mai mostrato molta disponibilità o affinità nei confronti dei candidati neri». La strategia che punta sull’insofferenza razzista dei latinos verso Obama, ha indispettito molti democratici, tra questi Ted e Caroline Kennedy che hanno schierato la famiglia con il candidato nero. De Martino: «E tra gli ispanici americani, che annoverano i cattolici Kennedy tra i loro miti, la notizia ha avuto una rilevanza enorme». [7] Tra i supporter di Obama anche l’ex vicepresidente Al Gore e l’ex presidente Jimmy Carter. [8]

Il terzo candidato democratico, John Edwards, si è ritirato pochi giorni fa, lasciando fuori dalla competizione presidenziale ogni tematica di sinistra. D’Eramo: «Sia Obama, sia Hillary Clinton si situano piuttosto sulla destra del partito quanto a politiche economiche e sociali (con Hillary perfino un po’ più a sinistra di Obama). Ma è assente anche la dimensione meridionale che nelle presidenziali Usa gioca un ruolo decisivo: si pensi che l’ultimo presidente nordista eletto fu John Fitzgerald Kennedy nel 1960 (quando vinse solo grazie al ticket con il texano e sudista Lyndon Johnson)». [2]

In campo repubblicano, le primarie hanno messo fuori gioco il candidato favorito, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. Il favorito (non solo tra i repubblicani ma nell’intera corsa alla Casa Bianca) è McCain. Teodori: « partito sfavorito: battuto otto anni fa da Bush, inviso all’establishment del partito repubblicano, poco ortodosso rispetto ai punti qualificanti del suo schieramento, ha fin qui riscosso un successo popolare che pochi immaginavano per un veterano ultrasettantenne già altre volte in corsa». [4] Ha detto il senatore dell’Arizona prima del voto in Florida: «L’economia è importante. Sono tempi di crisi e io so come farvi fronte. Ma la vera sfida è la sicurezza. Non starei qui a battermi per diventare presidente se non fossi convinto che il nostro futuro, nel Ventunesimo secolo, ce lo giochiamo nella lotta contro l’estremismo islamico». [9]

L’outsider McCain, un eroe di guerra da tutti rispettato per l’onestà e l’anticonformismo, ha saputo imporsi conquistando la simpatia popolare degli indipendenti e dell’ala moderata dei liberal. Teodori: «Il miracolo McCain è la forza della democrazia americana. Perché i presidenti che hanno segnato la politica negli Stati Uniti sono stati quelli che hanno saputo costruire una nuova coalizione presidenziale, mettendo insieme vari segmenti dell’elettorato (come Franklin D. Roosevelt nel 1932 e Ronald Reagan nel 1980), così trasformando l’intero sistema politico. Ed è proprio quel che, a mio parere, sta avvenendo». [4] In questi giorni McCain ha incassato l’appoggio di Arnold Schrwarzenegger (governatore della California che ne apprezza la sensibilità verso i temi ambientali) e di Giuliani. [10]

Mercoledì Romney e McCain si sono scontrati alla Reagan Presidential Library in California mettendo in dubbio le rispettive credenziali conservatrici e la rispettiva coerenza. Elena Molinari: «McCain è riuscito a scatenare l’ira di Romney citando una sua dichiarazione sull’Iraq, nella quale l’ex governatore sembra favorevole ad un piano di ritiro. ”Questi sono trucchi sporchi che il presidente Reagan non esiterebbe a definire riprovevoli”, ha ribattuto Romney, citando l’intoccabile ”santo patrono” del Grand Old Party. Quindi ha assicurato al pubblico a casa che se Reagan fosse vivo darebbe il suo sostegno proprio a lui. McCain non ha perso tempo: ha preso la palla al balzo per ribattere che Reagan non voterebbe mai per qualcuno che cambia idea ogni anno sull’aborto, (Romney era a favore durante la campagna per diventare governatore ma è diventato contrario giusto in tempo per le presidenziali)». [11]

Romney ha risorse economiche e organizzative per battagliare in tutti gli Stati in palio martedì. Alberto Simoni: «Ha raccolto il doppio (62milioni di dollari) rispetto a McCain e può staccare assegni attingendo anche al patrimonio personale». In vista del Supermartedì, ha lanciato su giornali e tv un’aggressiva campagna coast-to-coast, lusso che McCain non può permettersi (ha in tasca 3 milioni di dollari). L’ex governatore del Massachusetts ha anche il sostegno dell’establishment del partito. Franklin Foer, editor della rivista dell’intellighenzia liberal The New Republic: «L’unico candidato repubblicano imbattibile alle presidenziali del prossimo novembre è John McCain. Ma i vertici del Gop sono talmente stupidi ed autolesionisti che, alla fine, sceglieranno Mitt Romney». [12] Romney gode infine del favore dei conservatori, anche se potrebbe essere danneggiato da Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas che sebbene in ritardo non si arrende e continua a contendergli le preferenze dei cristiani conservatori (in Florida ha preso il 34% dei voti fra gli evangelici). [13]

Stando ai sondaggi, sia Hillary che Barack sarebbero sconfitti da McCain, sebbene di misura. Ma se è vero che McCain «gode di grande stima anche tra gli indipendenti e nell’elettorato democratico» (Mario Calabresi [14]), una parte dei repubblicani lo detesta. Ann Coulter, vestale dei neocon: «Voterò per Hillary. più conservatrice di John McCain, che non è solo un rischio per i repubblicani ma anche per il Paese». Ennio Caretto: «Perché tanta furia? Perché McCain, un falco in politica estera, è centrista in politica interna, ha votato per la riforma dell’immigrazione e del fisco e contro le torture dei detenuti a Guantanamo». [15] Tra i democratici, l’ultima risorsa potrebbe essere il fattore estetico. Intervistato da Maria Laura Rodotà, un giovane studente di nome Hamal si è detto certo che alla fine Obama potrebbe spuntarla: « giovane e fico, mentre John McCain sarà pure un eroe ma è vecchio». [16]