Focus febbraio 2008, Roberta Scorranese, 31 gennaio 2008
Capire l’arte contemporanea. Focus febbraio 2008. Diciamo la verità: spesso l’arte moderna è un rebus
Capire l’arte contemporanea. Focus febbraio 2008. Diciamo la verità: spesso l’arte moderna è un rebus. Che ci sarà mai da ammirare nel vespasiano di Marcel Duchamp o nelle tele bianche di Robert Ryman? Eppure, queste opere sono entrate nella storia dell’arte, perché hanno espresso emozioni e idee universali. Certo, è cambiato il linguaggio: l’armonia di Raffaello ha ceduto il posto a provocazioni, show, disarmonie... che sono poi lo specchio della nostra epoca. Meglio conoscere i nuovi linguaggi dell’arte, quindi, per apprezzare le intuizioni degli artisti di oggi. Del resto, anche il realismo senza fronzoli di Caravaggio fece scandalo nel 1600... All’ultima Biennale di Venezia c’erano 3 toilette blu, bianche e rosse. Guai a usarle: erano l’opera Liberté del norvegese Lars Ramberg. A New York l’argentino Rirkrit Tiravanija, dopo aver cucinato in galleria, regala stoviglie unte al pubblico: non è uno chef, ma un quotato artista la cui creatività consiste nel… far da mangiare agli spettatori. Ma che cosa succede all’arte? Perché oggi apprezziamo ciò che in passato erano semplici rifiuti? E com’è possibile distinguere la vera arte dai bidoni? Un fatto è certo: i tempi dei ritratti alla Raffaello sono finiti. Merito o colpa della fotografia, che nel 1800 si sostituì, con più efficacia, alla capacità della pittura di riprodurre la realtà. Così le arti visive assunsero un nuovo ruolo: cominciarono a rappresentare non solo immagini, ma anche concetti. Una vera rivoluzione. «Oggi non basta più saper dipingere realisticamente una mela, ma occorre anche saper rendere quel che di invisibile ha dentro» commenta Francesco Bonami, critico d’arte. Cioè saper usare la mela per esprimere emozioni. Per esempio, l’artista inglese Damien Hirst, invece di dipingere una mosca come avrebbe fatto Giotto, espone una vera mosca, in ali e cartilagine, su una tela. Oggi non serve più disegnare fedelmente una mosca, lo fa già la fotografia; quello che l’artista deve fare è suscitare una sensazione di ribrezzo con la mosca spiaccicata sulla tela. L’arte insomma, non è più solo tecnica realistica, ma è idea, provocazione. Il marketing dell’orinatoio Nell’arte contemporanea, inoltre, intervengono altri due fattori, al di là della bravura tecnica e dell’estro creativo: il mercato e lo spettatore, che non è più solo un passivo osservatore, ma concorre a dare senso all’opera. Il primo passo verso l’arte moderna fu, secondo lo storico dell’arte Pierre Rosenberg, il quadro I saltimbanchi di Picasso (1905), in cui la realtà è stravolta con figure quasi mostruose. Ma la vera rottura fu compiuta dal francese Marcel Duchamp, che nel 1917 presentò un orinatoio in ceramica, a cui diede il nome Fontana, valutato oggi 3,5 milioni di euro. Con quest’opera Duchamp mostrò che, oggi, tutto può essere arte. Per fare un’opera non era più necessaria la conoscenza tecnica, bastava un’idea originale e sorretta da un buon marketing. L’orinatoio presentato come creazione artistica ha fatto scalpore e questo è bastato a convincere critici, mercanti e acquirenti che quella era ”vera arte”. In più l’artista francese ha sancito un altro principio dell’arte contemporanea: almeno in teoria, tutti possono fare arte. Se riesci a vendere un orinatoio e a farlo pagare migliaia di euro, sei un genio! «Questo però non signi- fica che l’arte oggi è tutta una bufala, che gli artisti sono solo geni del marketing o che tutti sono artisti » puntualizza Bonami. Ecco il punto. Quando vediamo le tele bianche del pittore americano Robert Ryman, viene da pensare che sono trovate alla portata di tutti. Bonami non è d’accordo: «Le tele bianche sembrano una sciocchezza alla portata di chiunque, ma ciò che conta è farle per primo. E il primo a osare l’inosabile è stato proprio Ryman nel 1955». Non solo: in quelle tele c’è un messaggio. Il pittore aveva intuito che oggi non spaventano tanto le guerre (messe in scena da Paolo Uccello nel XV secolo) quanto il vuoto e la noia. Se l’arte è espressione della società, questa è la società che abbiamo: vuota. E che cosa poteva meglio rappresentare la noia di una tela bianca? Ryman fa quindi arte: senza dare sfoggio di grandi capacità tecniche ma lanciando messaggi che ci fanno pensare. Il senso? Ora vi spiego... Ma chi lo dice che il messaggio è proprio quello e non si tratta di un artista incapace di dipingere? Spesso sono già gli autori stessi a svelare quali messaggi esprimono le loro opere. Come faceva, per esempio, l’italo-argentino Lucio Fontana. Altri artisti, invece, sono scoperti e interpretati dai critici. Come Duchamp: si rifiutò sempre di spiegare il senso delle sue opere, limitandosi a dire che oggi l’arte è banalità. Il suo successo, quindi, è venuto dall’interpretazione dei critici. Il catalano Salvador Dalí faceva di più: presentava un’opera enigmatica e poi si divertiva a sconfessare le interpretazioni dei critici. Insegne, tappi e mozzarelle Insomma, il senso dell’arte, oggi, è tutto da cercare. E spesso non c’é una risposta univoca perché una stessa opera può suscitare emozioni diverse. Torniamo a Hirst: mette in mostra uno squalo vero conservato in formalina. Accanto a chi ne apprezza la forza spiazzante, ci sarà anche chi ne è disgustato. Ma resta comunque colpito. In definitiva, oggi è arte ciò che, in varie forme, esprime quello che siamo. Gli arazzi del senegalese Brahim El Anatsui, fatti di tappi e oggetti metallici, sono l’equivalente delle stoffe preziose rinascimentali: la società di oggi vuole materiali fatti in serie e deperibili. Il messaggio è: oggi tutto dura poco. Mozzarelle sociologiche Nel 1998 l’americano Joseph Kosuth presentava insegne luminose con scritte apparentemente senza senso, tipo ”What does it mean?” (’Che significa?”). Ovvero: molte cose che facciamo oggi (lo shopping compulsivo, il traffico...) non hanno senso. In Mozzarella in carrozza (1968) Gino De Dominicis ha esposto, letteralmente, una mozzarella in una carrozza in miniatura. Arte o una fantozziana ”boiata pazzesca”? Elevando un latticino a oggetto d’arte, il messaggio è: la nostra società si crea miti di carta, glorifica soubrette, paparazzi, finti opinionisti. Quindi, perché stupirsi se un artista mette una mozzarella in vetrina e non un autentico capolavoro? Lo faceva anche Caravaggio: con i suoi visi contorti dal dolore voleva dimostrare che la società non era fatta solo da re e nobili, ma anche da ubriaconi e prostitute. La mozzarella in carrozza di De Dominicis, mettendo in mostra la banalità, ci fa ridere ma al tempo stesso denuncia che tutti siamo schiavi della banalità, delle frasi fatte. Ma non è solo denuncia. Queste opere sono arte perché trattano gli stessi temi universali affrontati dai grandi del passato. Frati, suore, dollari e papi Nel XV secolo il pittore fiammingo Hieronymus Bosch dipingeva frati e suore in atteggiamenti ridicoli per denunciare il degrado della spiritualità. Nel 2003 lo scultore peruviano Jota Castro ha presentato Habemus Papam, una croce d’alluminio cinta da una corona di dollari. Non è solo una provocazione, ma vera arte: c’è l’idea, l’impatto visivo, l’innovazione. Altre volte, quello che sembra un errore è in realtà un messaggio profondo. O almeno così è venduto: Lucio Fontana tagliava la tela con solchi profondi. Una stupidaggine? No, un’altra rivoluzione: così la pittura acquisiva una terza dimensione andando a fare concorrenza alla scultura. Il taglio sulla tela è la conquista dello spazio: si va oltre la tela, mostrando una superficie che altrimenti sarebbe rimasta invisibile. l’’arte concettuale” perché esprime un’idea. Ed è arte perché nessuno l’aveva mai fatto prima. Passeggiate, pietre e fulmini Oltre a essere diventata concettuale, l’arte è sempre più spettacolo. Christo & Jeanne-Claude, per esempio, sono diventati famosi per aver impacchettato, con teloni di plastica, edifici famosi (imballarono anche il monumento a Vittorio Emanuele, in piazza Duomo a Milano, nel 1970): la loro arte consiste nel lasciare un segno sul territorio. Richard Long, altro esponente della ”land art” (l’arte che agisce sul paesaggio), si esprime così: fa lunghe passeggiate in territori disabitati e lascia qualche traccia (una fila di pietre, per esempio, come in Tame Buzzard Line, del 2001). Qui l’arte consiste in una denuncia sociale: la natura è spesso sopraffatta dall’arroganza dell’uomo. Il californiano Walter De Maria era andato oltre. In The Lightning Field (1977), nel deserto del New Mexico, ha sfruttato i temporali per creare uno spettacolo di luce con i fulmini caduti su 400 pali metallici appuntiti. Scopo della land art, scrive il critico Gillo Dor- fles, non è tanto ”imitare la natura, ma integrarsi ad essa”. Un altro aspetto, in apparenza assurdo, dell’arte oggi è l’uso del corpo, iniziato dal gruppo dadaista, nato in Svizzera ai primi del ”900. Artisti come il rumeno Tristan Tzara o il francese Hans Arp improvvisavano performance provocatorie facendo irruzioni nei teatri e recitando a braccio. Con l’action painting, pittori come Jackson Pollock hanno compiuto un’evoluzione: l’artista dipingeva col proprio corpo, nel caso di Pollock ballando sulla tela e facendo sgocciolare il colore al ritmo di danze indiane (come in N. 5, del 1948). Negli anni ”60, il tedesco Joseph Beuys passò 3 giorni in una gabbia con un coyote. Con I Like America & America Likes Me (1974), messa in scena alla galleria di René Block, a New York, l’artista si ricoprì di feltro e trascorse ore insieme all’animale, per lui simbolo di un’America primitiva e non ancora contaminata dal consumismo. I ”bisogni” dell’artista Secondo Marina Pugliese, critico d’arte, a stabilire oggi quello che è arte è anche il giro di «mercanti, critici e galleristi che selezionano le opere, stabiliscono le tendenze e creano i casi». Mesi fa, a Milano, da Sotheby’s, un barattolo con 30 g di feci è stato venduto a 124 mila euro. Era uno dei celebri esemplari di Merda d’artista di Piero Manzoni, che nel 1961 inscatolò le sue feci per lanciare un messaggio dissacrante: il vero artista, oggi, non è quello che sa disegnare perfettamente un albero, ma quello che riesce a vendere anche i suoi escrementi. Se il valore di un’opera di Leonardo da Vinci si misura dalla sua perfezione tecnica e stilistica, per un’opera di oggi il valore (anche economico) dipende spesso da fattori esterni all’opera d’arte in quanto tale. Oggi, sottolinea Francesco Poli, docente di arte contemporanea all’Accademia di Brera, si cerca non tanto il talento quanto il ”fenomeno”: ciò che riesce ad attirare l’attenzione del pubblico. Poi critici e mercanti d’arte gonfiano il caso, facendo lievitare le quotazioni dell’artista. Armonia ideale? Addio! In questo sistema così fluido, quante volte rischiamo di trovarci di fronte a bufale? «Tante» ride la gallerista milanese Claudia Gian Ferrari. «Per distinguere il kitsch (termine usato per definire oggetti di cattivo gusto) sublime dal kitsch- e-basta c’è una regola: dobbiamo guardare un’opera con innocenza, come se fosse la prima volta. Ciò che conta è che non ci lasci indifferenti. Ma per formarci un gusto è essenziale guardare molte opere». Anche perché le tradizionali categorie bello/ brutto non valgono più. «Ci sono altri parametri » sottolinea Pugliese. «Un’opera deve far riflettere, sorprendere, stimolare, divertire. Un tempo il bello era l’armonia ideale, oggi questo sogno si è infranto perché nessuno crede più in una verità unica e universale. Oggi il bello è relativo, soggettivo e riflette le contraddizioni del mondo ». la nuova arte, che piaccia o no. Roberta Scorranese