Corriere della Sera 26/01/2008, Stefano Filippi, 26 gennaio 2008
Quel mondo antico: bici, tasse, poltrone. Corriere della Sera 26 gennaio 2008. Addio Romano Prodi, senza rimpianti
Quel mondo antico: bici, tasse, poltrone. Corriere della Sera 26 gennaio 2008. Addio Romano Prodi, senza rimpianti. Addio, perché la caduta al Senato di giovedì sera non è soltanto un incidente di percorso, l’inciampo da cui ci si rialza con più energia di prima. l’addio a una lunga e dimenticabile stagione della politica italiana, a quel miscuglio di tortellini e privatizzazioni, mortadella e fedelissimi, biciclette e bipolarismo, Bologna e Bruxelles, Ulivi e Unioni, mogli al seguito e tute da sci fuori moda, Eurostar e pullman. Insomma, addio a 15 anni del professore di economia trasformatosi in politico, dell’uomo Iri reinventatosi premier, del «cattolico adulto» con la faccia pacioccona del parroco di campagna e il borbottio di un orso vendicativo che mette a segno due vittorie elettorali e per due volte è incapace di amministrarle. La fine del suo secondo governo, il Prodino, è anche la fine della sua parabola politica, il prodismo. Capitolo chiuso e irripetibile. Proprio ieri il Mulino, casa editrice di riferimento, ha pubblicato l’ultimo libro del presidente del Consiglio uscente. Racconta i suoi cinque anni da numero uno della Commissione Ue e s’intitola La mia visione dei fatti: quasi un testamento che riassume i capisaldi della sua avventura di governante al tramonto. Il prodismo è come il cubo di Rubik, un rompicapo quasi irrisolvibile ma che non ha niente di magico, che possiede sei facce e infinite sfaccettature, che non sai come prendere, che non riesci a tenere insieme una volta per tutte, e alla fine metti da parte. Il prodismo è il tentativo di coagulare Bertinotti e Mastella, Dini e Pecoraro, Bindi e Bonino, Binetti e Pollastrini, Caruso e Di Pietro. Se Aldo Moro era riuscito a partorire le convergenze parallele, Prodi ha voluto strafare cercando di conciliare l’inconciliabile. Non c’è neppure un nome univoco con cui definire questa velleità: Unione, Ulivo, centrosinistra. In fondo non è stato altro che la colossale illusione di tenere appiccicati la sinistra radicale, quella riformista e i centristi ostili a Berlusconi. Una fantasticheria mandata in frantumi dall’annuncio di Walter Veltroni che alle elezioni il Partito democratico sarebbe andato da solo, più che dalle picconate di Dini e Mastella. Il crollo del prodismo è il capolinea del «tutti uniti contro Berlusconi», l’unico collante di un mosaico in frantumi. Ma è anche l’epilogo di un modo di governare molto particolare: quello della «squadra». Un sistema semplice, fatto da un gruppo di fedelissimi piazzati nelle principali stanze dei bottoni, una congrega formata nel pensatoio di Nomisma, consolidata all’Iri e trasferita nei posti chiave del potere. Da Bologna a Roma fino a Bruxelles, non c’è Prodi senza Silvio Sircana o Ricardo Levi, senza Angelone Rovati o Enrico Micheli, Giulio Santagata o Rodolfo Brancoli. Inimmaginabile il Professore privo degli uomini allevati negli anni in cui svendeva le industrie di Stato, come Maurizio Prato (numero uno di Alitalia dopo esserlo stato di Fintecna) o Fabiano Fabiani (ex Finmeccanica e ex ago della bilancia nel Cda Rai). E dal «partito Iri» erano pronti a uscire i nuovi manager di Poste, Eni, Enel, Terna, Tirrenia. Il prodismo è il capolavoro di un grigio burocrate della Prima repubblica che improvvisamente diventa l’uomo nuovo della Seconda. E che lo fa con una mossa da maestro: quella di prendere i voti senza avere un partito. Il suo slogan poteva essere il titolo di un vecchio libro di Vaclav Havel, dissidente ceco poi diventato capo dello Stato: Il potere dei senza potere. Il Professore ha sfruttato la militanza altrui, il porta-a-porta di ex Pci ed ex Ppi, come un gregario che succhia la ruota del corridore più forte e poi lo batte in volata. Strategia che il premier-ciclista conosce a perfezione. Prodi voleva andare oltre i vecchi partiti, sognava una nuova formazione che assorbisse Dc e Pci-Pds, bastimenti in disarmo, sconfitti l’uno dai magistrati l’altro dalla storia. Ha fatto il premier senza essere un leader e risucchiando tessere non sue, perché il partito più forte non aveva ancora la forza di candidare un suo uomo a premier e l’unico ex comunista mai insediatosi a Palazzo Chigi, Massimo D’Alema, ha potuto farlo proprio a spese del povero Romano. E quando Prodi tentò di mettersi a capo di un partito suo, i Democratici (quelli dell’Asinello), fu affondato da Francesco Rutelli. E ora si ritrova con le gomme sgonfiate da Veltroni e dal Partito democratico. Doveva essere la creatura, è stata la sua condanna. Con Prodi se ne va anche la sua rivoluzione nel linguaggio. Quello strano fenomeno lessicale per cui una stangata come l’eurotassa diventa un «contributo per l’Europa», lo strangolamento dei contribuenti un «risanamento dei conti», la svendita delle aziende di Stato un’«offerta di migliori prospettive». Svanisce l’apoteosi dello sport assurto a messaggio politico, ma Giovanna Melandri non c’entra: le sgroppate in bicicletta sui colli di Bologna raffiguravano l’uomo con la schiena dritta, le maratone a Sassuolo allenavano alle fatiche di approvare le Finanziarie, le discese sulle nevi del Passo Campolongo erano il simbolo degli slalom fra le trappole seminate dagli alleati. Addio, Prodi: tornerà a fare il nonno. Si ritufferà nel suo piccolo mondo antico che per 15 anni è stato uno stile popolar-pauperistico sbandierato in tutte le occasioni. Gli affetti familiari: la moglie Flavia al seguito a Palazzo Chigi e in ogni dove, i nipotini cui è dedicato l’ultimo libro, i figli cui sono stati donati (esentasse, grazie alla legge Berlusconi) i denari per comprare casa. La Croma per andare in vacanza, l’appartamentino senza pretese a Bruxelles, la spesa al supermercato con Parisi, il ritorno a casa in treno da Roma, le messe domenicali nella parrocchia bolognese di Santo Stefano con codazzo di giornalisti, le campagne elettorali in camper pullman e tir, le feste di compleanno a Scandiano rallegrate da telecamere e fotografi. Il vero rimpianto restano «i cinque anni intensi alla guida della Commissione europea: mi avevano arricchito in maniera straordinaria», scrive nel suo fresco libro. Il segreto di quel successo? l’unico governo che non deve chiedere la fiducia. Stefano Filippi