Corriere della Sera 29/01/2008, MICHELE SALVATI, 29 gennaio 2008
Di chi la colpa? Non di Veltroni. Corriere della Sera 29 gennaio 2008. All’interno del centrosinistra circola la leggenda che «è colpa di Veltroni»: il governo sarebbe caduto perché il segretario del Pd avrebbe solennemente affermato che il suo partito si presenterà da solo, con il suo programma, alle prossime elezioni politiche
Di chi la colpa? Non di Veltroni. Corriere della Sera 29 gennaio 2008. All’interno del centrosinistra circola la leggenda che «è colpa di Veltroni»: il governo sarebbe caduto perché il segretario del Pd avrebbe solennemente affermato che il suo partito si presenterà da solo, con il suo programma, alle prossime elezioni politiche. Quale sia il fondamento di questa leggenda, fatta propria anche da molti commentatori, proprio non lo capisco: a me sembra infondata, se la «colpa» viene attribuita al segretario e non alle circostanze in cui egli si è trovato ad operare. Il Pd nasce tardi e in un momento sbagliato, quando è in carica un governo di coalizione di cui fa parte, invece di nascere prima, e all’opposizione. Per lo stesso fatto di nascere in queste circostanze – e non per le scelte di un segretario invece di un altro – governo e partito si trovano in potenziale conflitto. Il governo fa male al partito, se questo vuole affermare – come deve – un’identità parzialmente diversa da quella della coalizione cui il governo risponde. Ma se lo fa, se cerca di affermare questa identità diversa, il partito non può che far male al governo. O quantomeno gli complica la vita, se è vita quella di barcamenarsi tra le spinte che provengono dai vari membri di una coalizione così eterogenea, da Diliberto a Mastella. Questo lo si era già visto l’anno scorso, in tema di politiche economiche e sociali, e lo si sarebbe visto ancor di più in tema di politica estera, se il partito fosse stato in vita all’inizio della legislatura, quando questo tema generò notevoli tensioni all’interno della coalizione. E’ diventato evidente in queste ultime settimane, quando l’imminenza del referendum ha posto sul tavolo il problema della riforma elettorale. Sui temi di governo, fatta eccezione per i pochi Turigliatto, i piccoli partiti sono disponibili a qualche compromesso. Non lo sono quando è in gioco la loro stessa esistenza: e di questo si tratta quando si discute di leggi elettorali, perché una legge invece di un’altra può significare la presenza in Parlamento o la scomparsa. Con una maggioranza sempre a rischio per i margini risicati in Senato e l’eterogeneità della coalizione, chiunque poteva prevedere che i rischi sarebbero aumentati mano a mano che ci si avvicinava al referendum («colpa» di Guzzetta e di Segni, allora?). E che cosa ha fatto Veltroni se non ciò che qualsiasi segretario di un grande partito, da poco formatosi, avrebbe dovuto fare al fine di comunicare agli elettori la sua nuova identità? Partendo da una visione bipolare della democrazia matura, prevalente tra i Ds se non in Margherita, Veltroni ha cercato di tener conto delle critiche rivolte al bipolarismo coatto in cui abbiamo vissuto dal ’93 in poi – un sistema in cui si vince, ma poi non si governa – mediante la proposta di un modello elettorale di tipo spagnolo. Proposta rivolta a Forza Italia, anch’essa in crisi con i suoi alleati minori, e apprezzata da un vasto fronte, che andava dai grandi giornali sino alla Presidenza della Repubblica. Poco apprezzata, ovviamente, da tutti i partiti esclusi i due più grandi, che ne sarebbero stati i maggiori beneficiari. Con i piccoli e medi partiti della coalizione in subbuglio, e per non creare fastidi al governo, Veltroni si è in seguito adattato alle proposte della Commissione Bianco, facendo retromarcia rispetto ad un disegno di bipolarismo «aiutato» dalla legge elettorale, per rassegnarsi a un sistema proporzionale. In questo sistema tutti i partiti «corrono da soli», ovviamente, perché non ci sono coalizioni prima delle elezioni. Così come «corrono da soli» nel caso del sistema risultante dal referendum, se sono partiti onesti e non fanno ammucchiate in un’unica lista, poi destinata a frantumarsi in diversi gruppi parlamentari. A me sembra che Veltroni abbia fatto le massime concessioni possibili al governo e alla sbilenca coalizione che lo sosteneva, correndo il forte rischio di appannare il profilo ideale e programmatico del nuovo partito. Come suo segretario, Veltroni non poteva però rinunciare all’obiettivo di presentare il partito da solo, con un suo messaggio e un suo programma ben definito, e a me sembra che qualsiasi segretario che avesse creduto nel progetto del nuovo partito avrebbe fatto così. Anche se si andrà alle elezioni con l’attuale legge elettorale – l’esito più triste e più probabile, mi pare – annullare la fragile, nuova, identità del partito nel finto programma di una coalizione eterogenea come quella dell’Unione non eviterebbe (anzi favorirebbe) una sconfitta elettorale e in più lascerebbe il Pd in macerie. E a coloro che affermano che la defezione di Mastella è stata causata dalla dichiarazione di Veltroni di voler correre da solo risponderei con il grande Totò: «ma faciteme u piacere!». MICHELE SALVATI