La Repubblica 30/01/2008, pagg.1-7 FILIPPO CECCARELLI, 30 gennaio 2008
Franco o l´arte della dissimulazione. La Repubblica 30 gennaio 2008. Era l´ottobre del 2006 e «Basta chiacchiere - disse Marini - non sono disponibile per alcun governo elettorale!»
Franco o l´arte della dissimulazione. La Repubblica 30 gennaio 2008. Era l´ottobre del 2006 e «Basta chiacchiere - disse Marini - non sono disponibile per alcun governo elettorale!». E´ sempre molto difficile capire se e in che misura gli uomini politici sono sdegnati o fanno finta. Quelli di origine Dc hanno dalla loro una grande scuola di dissimulazione che li porta anche a sembrare lievemente svogliati o pienamente soddisfatti del loro lavoro - quando non lo sono affatto e bramano ulteriori poltrone. Di tutti i residui democristiani il più enigmatico è senz´altro Franco Marini, che è pure burbero, però anche amabile, spiritoso e civettuolo; e poi forse è anche un po´ sordo, ma chi lo conosce bene sostiene che lo è molto meno di quello che gli fa comodo di lasciar credere che sia. Insomma, una bella complicazione. E comunque «basta chiacchiere» disse Marini già nell´ottobre del 2006, cioè appena cinque mesi dopo essere stato eletto alla presidenza del Senato: «Vedo con sorpresa che si continuano a ripetere giaculatorie su possibili crisi di governo - proseguì in quell´occasione Marini - Ogni giorno qualcuno tira fuori il mio nome come capo di un governo che potrebbe portare alle elezioni. La maggior parte delle volte resto in silenzio. Ma l´insistenza, inutile, di queste voci, m´impone di dire una parola chiara in proposito». Marini insomma non era disponibile. In quel suo dire, però - sia detto con rispettosa ammirazione - mancavano solo i ringraziamenti a quanti, anzi ai tanti che quella sua candidatura pervicacemente alimentavano, tenendola in caldo per momenti propizi. In questo Fanfani aveva un tempismo prodigioso, nel senso che smentiva a freddo di puntare su una carica, con il che sia pure alla rovescia gli addetti ai lavori, e tramite loro l´opinione pubblica, venivano a conoscere le sue incessanti aspirazioni. Non che si parlasse poi così tanto, nell´autunno del 2006, di un´ipotesi Marini. Di un Prodi da mettere da parte. Di un governo elettorale, o istituzionale. Eppure, secondo l´antica tradizione, con quella quasi irritata messa a punto il presidente del Senato si proponeva in realtà al centro dell´attenzione come la più realistica soluzione o come una probabile alternativa alla legittima sopravvivenza di Prodi. Quello che sta accadendo in queste ore non solo conferma la necessità di seguire sempre con qualche disincanto i micro-segni del Palazzo, ma suggerisce anche di riconoscere che non di rado questi giochi di specchi possono dar vita a risultati beffardi e paradossali. Chi si prenda la briga di esaminare con qualche meticolosità gli assidui interventi e le impercettivili traiettorie di Marini nel corso degli ultimi due anni, compito in verità gravoso nella sua inevitabile monotonia, scopre oggi che per setto od otto volte almeno il suddetto Marini ha dovuto, potuto e voluto «smentire» la possibilità di trovarsi alla guida di un governo perché quello di Prodi era caduto giù. Questo «non voglio», questo «non si pensi che io», questo «sarebbe una iattura», questo «ma no, è un´opzione debole», ecco, tutto questo costituisce ciò che l´insigne professor Miglio, scienziato della politica, definiva una «regolarità». Un´eventualità che puntualmente attraversa i viaggi di Marini in Italia e all´estero, le interviste sul Partito democratico, le immagini di lui con il cappello da alpino in testa, il resoconto di cene e convivi di nostalgia scudocrociata; o anche articoli più leggeri (sul sigaro, sul vino), come resoconti di trionfalistici ritorni al paesello dello zafferano abbruzzese, San Pio delle Camere, dove gli capitava di essere accolto da fiori e striscioni, il più eloquente dei quali recitava: «La tua presidenza, vanto e magnificenza». S´intendeva ovviamente la presidenza del Senato, che peraltro Marini ha ricoperto in una fase accidentatissima molto meglio di tanti suoi predecessori. Eppure, proprio per via del continuo trambusto, lo si vedeva a Palazzo Madama in condizione di assoluta e connaturata provvisorietà, come se un destino di potere maggiore l´avesse già predestinato a Palazzo Chigi. Ed è in situazioni del genere, probabilmente, che la politica libera il suo demone e «Scintillone», che è il curioso soprannome che Marini si porta appresso dai tempi allegri della Cisl, ha finito probabilmente per desiderare quel destino lì. Un pensierino tra Cernobbio e il workshop Ambrosetti. Un´ideuzza tra un concerto di Natale e un intervento al congresso margherito di Cinecittà. Una speranziella alla serata per la moda. Non sono cose che si certificano dal notaio. Né si può dire, onestamente, che Marini, nel frattempo subissato di lusinghe, abbia mai compiuto nulla di inelegante in proposito. Ma qualcosa di indicibile sfuggiva lo stesso nel modo in cui guardava le telecamere, nel tono delle smentite che si sentiva in dovere di emettere a getto continuo, magari attribuendo agli altri i suoi propositi: «Giuliano, preparati perché mi sa tanto che sarai tu» (febbraio 2007). Fino a quando, era settembre, l´elefante padano di Bossi non entrò nella cristalleria delle voglie e delle vaghezze e disse, a proposito di un ipotetico governo Marini: «Meglio stare lontani dai morti, i cadaveri portano a fondo». Ma anche in quel caso: più che la graziosa immagine di Bossi colpiva la lista delle solidarietà, compresa una quasi promettente di Rotondi che non perdeva l´occasione di fare i complimenti a Marini anche in vista del futuro. Bene, questo futuro sembra adesso arrivato. Ma non assomiglia affatto a quello che «Scintillone» in questi due anni non ha potuto nemmeno confessare. Più che a raccogliere l´agognata presidenza del Consiglio, Marini si sobbarca a un umile e difficile compito cui non può nemmeno dire di no. Svolge quello che un tempo i suoi maestri facevano con cristiana rassegnazione. Lo fa nelle condizioni peggiori, con il peggior incanaglimento della vita pubblica. A riprova che il potere è sempre troppo bello da lontano, mentre da vicino a volte non è più potere, ma fatica e «servizio» - e in questo contrasto riposa forse la gloria equivoca della politica. FILIPPO CECCARELLI