La Stampa 26/01/2008, GIANCARLO DOTTO, 26 gennaio 2008
”Ho sempre sospettato di Moggi”. La Stampa 26 Gennaio 2008. ROMA. un monumento allegro di quasi sessantasei anni
”Ho sempre sospettato di Moggi”. La Stampa 26 Gennaio 2008. ROMA. un monumento allegro di quasi sessantasei anni. Ormai romano. Un simpaticone come pochi. Me lo dico e ridico mentre lo guardo estasiato che sul divano in pelle del circolo Canottieri Aniene si contorce a simulare i simulatori che gli fanno ribrezzo. Dino Zoff è il nostro Gary Cooper, un classico insomma, due espressioni in tutto ma decisive, abile di mano quanto l’altro, solo che lui estraeva palloni dalla porta invece che pistole dalla fondina. Ha smesso a 41 anni da campione del mondo. Ora che il mondo in quanto calcio non lo vuole più, lui si dà pace. Lo sa da sempre che le cose finiscono. Fa la bella vita, quando non lo rapinano o non lo molestano con le mozioni della memoria. Gioca a tennis e a golf. «Sono un mediocre tennista e un mediocrissimo giocatore di golf», ci tiene a dire. Solito basso profilo. Mi raccontano invece che sul green fa progressi da gigante. «Ho la sindrome del campione, se non vengo fuori come Dio comanda mi ritengo una pippa. Non posso farci niente, io ero e resto Dino Zoff». Smettere a quarantuno anni nell’83 era un’anomalia, oggi si va oltre. «Potevo durare qualche anno in più ma volevo smettere al top. Dopo la vittoria mondiale non ci siamo qualificati per gli Europei e con la Juve avevo perso la finale di Atene. Era logico finire così, anche se è stato difficilissimo». Il giorno dopo l’annuncio del ritiro? «Sono entrato nella parabola della vita. Ho riflettuto: non potevo durare per sempre. Non mi sono disperato dopo perché non mi sono mai sentito in paradiso prima. Continuo a sentirmi, questo sì, un campione del mondo di etica». Etica e calcio, contraddizione in termini. «Sto male fisicamente quando vedo certe sceneggiate in campo, gente che rotola al minimo contatto. Si sono inventati il terzo tempo. Che senso ha se non bonifichi il problema che sta a monte? Ma quale terzo tempo! Io non gliela stringo la mano a uno che mi ha rubato un rigore». Praticava l’etica anche da allenatore? «Dicevo ai cascatori: ma cosa racconti a tuo figlio che ti ha visto in tivù, che sei stato furbo o che sei uno straccio di atleta? Un quarto d’ora di espulsione per ogni sceneggiata, allora sì che avrebbe senso il terzo tempo». Un simulatore più insopportabile di altri? «Luciano Chiarugi. Quando veniva in Nazionale era meglio che girasse al largo. E poi Dida. Un colpo al cuore. Da lui non me lo sarei aspettato. Io non l’avrei mai portato fuori in barella. Lo costringevo a restare tra i pali». Riflesso pavloviano, dico etica e penso Moggi. «Intuivo, ma non avevo prove. Quando allenavo la Fiorentina sono stato il primo a tirar fuori i cattivi pensieri, a denunciare che c’era qualcosa di pilotato. Poi è venuto fuori tutto». Ha smesso e si è dimesso. «Hanno scritto che mi ero dimesso dalla Nazionale per la critica tecnica, la storia di Zidane. Figuriamoci! Berlusconi disse una cosa molto pesante sulla persona, che ero indegno di guidare la Nazionale...Indegno io che ho più croci sul petto dei generali russi!». Eccesso di reazione? «Ma no, è che io vedo le cose prima. Sapevo tutto, sapevo anche che stavo per finire. Non faccio parte di nessun giro, dimettersi è uno schiaffo per certa gente». E’ saggio abbandonare le cose che ci abbandonano. Prodi non la pensa così. «La dimostrazione di carattere è superflua quando non ci sono le possibilità. Alla prima sconfitta avrebbero detto: ha ragione Berlusconi, Zoff è scemo. A girarla in positivo diciamo che, se fossi finito in Giappone, mi sarebbe venuto un infarto a fare quella figuraccia. Anche se, sono presuntuoso e dico che con me non sarebbe finita così». Dino Zoff è un duro. «Ero fatto di ferro. Mi sbattevano contro e si rompevano. Un certo Volpi mi diede un calcio al ginocchio e si fratturò l’alluce». Sano come un pesce. Ha rovinato la carriera a non si sa quanti dodicesimi. «332 partite di seguito e nessun rimorso. Lo sport è competizione, gioca chi merita. E io certo non mi fermavo per un raffreddore». Non tanto tempo fa, aggredito e rapinato sotto casa con sua moglie Anna. «Mi hanno preso alle spalle in garage, pensavo a uno scherzo di mio figlio. Mi sono girato e ho visto il passamontagna. L’istinto è stato quello di liberarmi dalla morsa». Un riflesso da portiere. «Mi sono detto: che cazzo di portiere sei? Possibile non hai percepito prima il pericolo? Erano in quattro, mi hanno buttato per terra, uno mi teneva, un altro mi puntava un cacciavite sul collo. Lì ho avuto paura...Se mi buca, è un casino...». Insomma, è stato come prendere un gol evitabile? «Una volta mi giustificai con mio padre per un gol preso: "Non me l’aspettavo". Lui mi gelò: "Perché, fai il farmacista?". Vengo da questa scuola, cruda ma vera. Mai cercare scuse». Diciassette anni a Torino tra giocatore e allenatore. Che cosa le manca di quella città? «Le chiacchierate con Gianni Agnelli. Mi sfiniva con le sue domande. Veniva a Villar Perosa, voleva sapere tutto di tutti. Scendeva spesso nello spogliatoio tra il primo e il secondo tempo per un caffè. Mai dato un suggerimento». Eddy Reja, un friulano come lei. Se fosse venuto da Zoff un presidente a dirgli in faccia: ”Non ti picchio solo perché sei vecchio”? «Non so il contesto della frase, ma gli avrei messo io le mani addosso. Nessuno si è mai permesso, non so perché, incuto timore forse rispetto». Fabio Capello, un altro friulano. Come lo vede a Londra? «Benissimo. Fa un calcio semplice e redditizio, quello che ci vuole per gli inglesi. Ma lui non parla friulano, è bisiacco, un venetastro». Zoff a Napoli, gli opposti si sono amati. «Ero un timido friulano in quel manicomio. I portieri dovevano salutare la curva. All’inizio ho cominciato con la manina furtiva, poi poco a poco mi sono adeguato. Sono un animale che sta nel suo mondo e prende il meglio di quello che ha attorno». Il giocatore più godibile da allenatore. «Ero innamorato di Gascoigne, il mio contrario. Mi ha fatto disperare da morire e morire di felicità. Un artista. Una volta, in ritiro a Roma con la Lazio mi fa: "Mister, devo andare a casa, è venuta la mia donna". "Vai pure, ma domani non giochi". La mattina dopo, siamo lì nella sala da pranzo dell’albergo, prima della partita, si apre la porta ed entra lui completamente nudo, nudo totale, e mi fa: "Mister mi hanno detto che mi voleva, non ho fatto in tempo a vestirmi". L’ho cacciato ma l’ho amato. Anche Tacconi mi era molto simpatico». Mica facile da portiere avere Zoff come allenatore. «Lo perseguitavo perché nelle uscite sull’uomo ogni tanto si girava. Gli dissi: la prima volta che mi prendi una pallonata in faccia o nelle palle ti pago un milione. Mi si presentò una volta negli spogliatoi trionfante a fine partita: "Mister, stavolta paghi". Si gira, aveva un graffio sulla schiena». Il più rispettato. «Scirea era lo stile fatto uomo e calciatore. Aveva la serenità dello stile. Come estro puro, Sivori e Platinì. Omar era intelligentissimo, Altafini soffriva molto la sua personalità». Zoff si nasce o si diventa? «Avevo cinque anni e mi buttavo per strada con l’abito buono. Ero lo scemo del villaggio. I più grandi mi cercavano per mettermi in porta. Sempre stato bravo. E arrogante. Mi sono sempre sentito responsabile dei gol presi. Soprattutto di quelli che la gente giudicava imparabili». La parata mondiale con il Brasile il suo capolavoro? «Niente di straordinario. Mi applaudivo di più quando intuivo prima degli altri lo svolgimento di un’azione. Quando arrivavo prima sulla palla senza essere poi costretto a fare il miracolo. Semplificavo molto il ruolo del portiere, per questo non stavo mai nei top 11». Il lato oscuro di Dino Zoff. «E’ il mio lato luminoso che pochi conoscono. Passo per un orso, ma è solo timidezza. Vengo da una terra per cui il lavoro è sacro e per me il calcio era un lavoro. A parlarne diventavo serioso, rigido». Il calcio non ha più bisogno di uno come Zoff. «Il mondo ti dice non servi più, ne prendo atto. Non la vivo come una sconfitta. La vita è una sconfitta. Alla fine vince sempre quello che mette il sigillo sulla bara. Un ritorno? Se mi chiamassero per una cosa importante ci penserei». Il piacere di un totem ultrasessantenne. «Stranamente mi fa piacere parlare. Sono preoccupato per cosa uscirà fuori da questa intervista, ma ho provato piacere a farla. E non mi sono nemmeno sentito tanto stupido». GIANCARLO DOTTO