Il Manifesto 25/01/2008, Rocco Ronchi, 25 gennaio 2008
Né la salute né la felicità sono soggette a una misura. Il Manifesto 25 Gennaio 2008. Il senso dell’antico detto latino secondo il quale la filosofia ha inizio dove finisce la medicina va forse rovesciato
Né la salute né la felicità sono soggette a una misura. Il Manifesto 25 Gennaio 2008. Il senso dell’antico detto latino secondo il quale la filosofia ha inizio dove finisce la medicina va forse rovesciato. Per il medico e filosofo Georges Canguilhem, di cui Einaudi ha recentemente pubblicato Sulla medicina. Scritti 1955-1989, concetti assolutamente comuni quali quelli di «salute» o «guarigione» sono infatti inaccessibili, nel loro senso, al medico che non accetti di vestire i panni del filosofo. Della salute, come della guarigione, ciascuno si sente un legittimo giudice. Essere in salute è, dopotutto, «sentirsi bene» o, come sarebbe meglio dire, non sentirsi affatto, giacché secondo una celebre definizione - condivisa già da Kant - la salute non è altro che «la vita nel silenzio degli organi»; mentre la malattia, il dolore e, forse, anche il piacere, sono una specie di riflessione spontanea del corpo, un suo rivelarsi a se stesso. Questa persuasione senza concetto, legata a quanto Cartesio avrebbe chiamato «l’uso della vita», è però sistematicamente contraddetta dalla scienza medica, la quale non dà molto credito al vissuto soggettivo del paziente. Questi, ad esempio, può dire di sentirsi bene oppure credere di essere guarito, ma il medico può sempre obiettargli che le cose non stanno affatto così, che la sua salute è solo apparente e la guarigione illusoria. Se infatti i processi fisiologici sono oggettivi e se la medicina è una scienza, allora definire la situazione del paziente è di competenza del tecnico titolare del sapere. La verità non è del paziente Canguilhem lo mostra a proposito di uno dei fenomeni «meno studiati dalla medicina»: la guarigione. Il medico differisce dal guaritore perché quando guarisce, guarisce «per accidente». Il suo compito istituzionale, infatti, non è guarire ma inquadrare un caso nella cornice della teoria e alla luce della teoria somministrare al paziente «il trattamento meglio studiato, sperimentato e testato che la medicina possa offrirgli». Per il guaritore vale invece quel principo che Feyerabend poneva a fondamento della sua epistemologia anarchica: «anything goes». Tutto va bene purché acchiappi il topo. Ciò che conta è il risultato, dal cui conseguimento dipende la fama del terapeuta. La scienza riconosce al paziente solo un sapere minore, quel conoscere che i filosofi antichi chiamavano «opinione» e che contrapponevano alla saldezza dell’episteme. Il paziente, infatti, deve dire al medico come si sente, deve - nella sua lingua inadeguata - raccontare i propri sintomi, ma la verità intorno alla sua reale condizione è scritta una volta per tutte nelle cartelle cliniche e sarà portata alla luce dalle analisi di laboratorio. Il medico è sempre tentato «dall’idea che la sua scienza sia una lingua ben fatta, mentre il paziente si esprime solo in gergo». In questa sua pretesa è giustificato dall’obbiettivismo che caratterizza la pratica scientifica. Se infatti la scienza è il luogo della oggettività passibile di misura e di calcolo, allora il vissuto del paziente è soltanto un balbettio infantile che aspetta di essere articolato distintamente nella lingua adulta del sapere e verificato dai suoi apparati tecnici. Il suo vissuto è soltanto una «qualità secondaria», qualcosa di certamente reale, perché il paziente soffre veramente oppure si sente effettivamente «bene», ma al tempo stesso è una entità non ancora «vera». Per divenirlo dovrà accettare di essere tradotto nella lingua impersonale della teoria. Allora il suo «corpo soggettivo» sarà informato in una «idea» è diverrà l’effetto di una causa. La statistica lo potrà contabilizzare facendone un «caso». Il naturale erede del medico è infatti l’igienista che «s’impegna a governare una popolazione», e che dunque non ha a più a che fare con singoli individui. Una «scienza della salute» è perciò, secondo Canguilhem (e Foucault) un pericolosissimo strumento di potere, se non addirittura la forma estrema del potere, in grado di limitare in modo preventivo la libertà dei cittadini dettando loro il modo scientificamente «corretto» in cui comprendere la loro stessa vita biologica. Nulla però vieta di pensare che salute e guarigione possano appartenere «a un genere del discorso diverso da quello che si apprende dal lessico e dalla sintassi nei trattati di medicina e nelle cartelle cliniche». Canguilhem, che non è certo tenero con l’ipotesi di demedicalizzazione della società avanzata da Ivan Illich, al quale riserva anzi non poche frecciate polemiche, condivide tuttavia con lui l’idea che della salute non si possa dare un concetto scientifico, «bensì un concetto volgare, il che non significa triviale, ma soltanto comune, alla portata di tutti». Per chiarire che cosa sia questa «salute senza idea», il filosofo francese è costretto a fare riferimento a una costellazione di autori che è insolito ritrovare negli scritti sulla medicina: da Nietzsche a Bergson, da Artaud a Scott Fitzgerald. Sono autori cari ad un certo «vitalismo», guardato tradizionalmente con sospetto dalla scienza ufficiale, ma al quale proprio Canguilhem ha restituito, in studi esemplari, una dignità epistemologica. La salute non è definibile a partire dai suoi elementi computabili. Non è un fatto accertabile da appositi apparecchi. Piuttosto è un atto (non oggettivabile), un’apertura originaria dell’esistente al mondo, capace di dotarlo di quella che Artaud chiamava una certa «potenza di espansione», una attitudine a lasciare il proprio marchio su un ambiente che non ha scelto. La malattia, ovviamente, segnerà il restringersi, fino all’immobilità, di questo campo d’azione e la guarigione, lungi dal significare una restaurazione di una natura compromessa, sarà una ristrutturazione precaria, una nuova norma che si è prodotta in un corpo irrimediabilmente danneggiato da quel processo di degradazione entropica che è la vita. E del medico e della sua raffinatissima arte che ne è? A differenza di Ivan Illich, Canguilhem lo ritiene indispensabile. Tuttavia, non sarà più l’agente agli ordini dell’apparato statale «incaricato di vegliare sul diritto alla salute di ogni singolo cittadino», ma il «mio» medico, vale dire l’«esegeta» del mio corpo vivente, il filologo della mia esistenza incarnata e moribonda. Secondo Canguilhem l’analisi psicoanalitica può, a questo proposito, fornire alla medicina un prezioso modello di riferimento per impostare un corretto rapporto terapeutico, nel quale medico e malato non si riducano a un tecnico competente e a un meccanismo difettoso da riparare. Ma quale psicoanalisi? Per tentare una risposta ci si potrebbe rivolgere, a un recente libro di Massimo Recalcati titolato Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in favore della psicoanalisi (Bruno Mondadori, scritto sotto l’urgenza del momento e con la passione del militante che vede il magistero freudiano minacciato da ondate di banalizzazione e demonizzazione crescente. Ma il saggio di Recalcati è molto di più di un pamphlet in difesa dell’onore di Freud, perché intende, piuttosto, riaprire un problema epistemologico frettolosamente chiuso in un’epoca, la nostra, nella quale trionfa una cultura fondata sui valori dell’efficacia, della produttività e dell’adattamento funzionale. Recalcati, che è un clinico dei cosiddetti «nuovi sintomi» - la bulimia, la anoressia e più in generale tutti i disturbi della alimentazione - ritiene infatti che, proprio nella pratica psicoanalitica, parole come salute, guarigione, cura, acquistino un senso diverso da quello che hanno nei trattati di medicina, nelle cartelle cliniche e nelle preoccupazioni dell’igienista-amministratore. Fuori dalla norma La psicoanalisi non è infatti una «scienza della salute» e non considera il sintomo un tumore da asportare ad ogni costo, magari spostandolo dove fa meno danni, come invece pensano tanti psicologi fautori delle terapie «cognitivo-comportamentali», così fieri della velocità con cui riescono a restituire i loro pazienti ad una vita «normale» (vale a dire a dio, alla patria, alla famiglia e all’eterosessualità). Il sintomo, per Freud, non è infatti un errore, un disfunzionamento momentaneo che si tratta di normalizzare, ma è una verità. la verità del soggetto dell’inconscio, una verità indistruttibile che si manifesta indirettamente, ma che è in grado di produrre anche un suo specifico e antieconomico «godimento», per il quale il soggetto è disposto perfino a compromettere la sua autoconservazione. In uno dei più belli fra gli undici elogi dell’inconscio che compongono il suo libro, Recalcati si chiede allora in cosa consista l’eccentricità della cura psicoanalitica rispetto al modello standard. Di certo, è implicata una richiesta di felicità alla quale l’analista deve cercare di rispondere, ma la felicità - che è qui l’equivalente della «salute» fisiologica - non ha una unità di misura. Lacan ripeteva a questo proposito un adagio ben noto ai lettori di Leopardi: la misura del desiderio, di quel desiderio indistruttibile che struttura l’inconscio, è infinita. Ogni tentativo di darne a priori una definizione trasforma in un fatto anticipatamente calcolabile quanto invece non si lascia mai assimilare a una precostituita normalità. Se esistesse «una misura universale della felicità», continua Recalcati, essa troverebbe il suo fondamento nel potere, nel «discorso del padrone», di cui le morali prescrittive, tanto rimpiante dai nostri neoconservatori, costituiscono il modello ideale. Non c’è una «scienza della felicità» come non c’è una «scienza della salute», se non nei programmi di una psicoterapia totalitaria che mira a produrre effetti di normalizzazione e di adattamento. Nella prospettiva psicoanalitica, la guarigione non è perciò la restaurazione di una norma naturale, rispetto alla quale il sintomo si porrebbe come deviazione. Trasformazioni del divenire Il rapporto tra ciò che la scienza medica chiama «il normale» e ciò che definisce come «patologico» va ripensato proprio nella direzione che era stata sviluppata da Canguilhem fin dal suo saggio del 1943 (e che tanto interesse aveva sollevato nel giovane Foucault). Sia sul piano fisiologico che su quello psichico, il vivente non è niente di dato, nessuna media statistica ne definisce la «normalità». La sua plasticità, che Canguilhem chiama «normatività», è strutturale. La malattia rappresenta una trasformazione complessiva del suo divenire che ha il senso di una cristallizzazione, dell’irrigidimento del soggetto in una norma data (tutte le nevrosi sono alla fine, secondo Recalcati, dei deliri identitari). La guarigione, a sua volta, è una trasformazione che non restaura nulla, ma, grazie alla esegesi del «mio medico» - specchio opaco in cui il soggetto si riflette - porta il soggetto ad «allearsi» con la sua verità: una verità che, in ultima analisi, è sempre la stessa per tutti i viventi: «c’è dell’inguaribile» - dice Recalcati; e «ogni vita è bene inteso un processo di demolizione» scriveva Scott Fitzgerald, uno degli autori citati da Canguilhem. Rocco Ronchi