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 2008  gennaio 19 Sabato calendario

Barbari. La Repubblica 19 gennaio 2008. Cieli bassi della Francia del Nord, pioggia fine tra gli abeti

Barbari. La Repubblica 19 gennaio 2008. Cieli bassi della Francia del Nord, pioggia fine tra gli abeti. In una radura, alcuni archeologi cercano tra i resti di un campo militare romano del quarto secolo. Dal terriccio saturo di frammenti di coccio, sbuca a un certo punto un testone di pietra arenaria, primitivo e calvo, più simile al guanto di un pugile che a un ariete. Si scava ancora, ed ecco emergere anche il busto, percorso per tutta la lunghezza, fino al mento, da un enorme sesso maschile. Gli esperti riconoscono al volo l’ impressionante inquilino del "Castrum". E’ Freyr, il Dio germanico della fertilità, adorato dagli stessi popoli che hanno distrutto le legioni di Augusto nella Selva di Teutoburgo. Una preda di guerra? Niente affatto: è un idolo dei legionari stessi, sistemato accanto alle statue degli dei olimpii, lì sulle retrovie del Limes imperiale. Domanda: che ci faceva il simbolo di pietra del nemico in mezzo alle aquile e ai fasci littori? Nella logica dello scontro di civiltà, non sarebbe come scoprire oggi un Corano in arabo nello zaino di un soldato americano in Iraq? C’ è la risposta: prima dello scontro c’ era stato l’ incontro. Nel quarto secolo le legioni si erano già "barbarizzate"; avevano inglobato nei loro ranghi contingenti germanici, goti e vandali con tutto il loro armamentario di dei, idoli, usanze. "Franco nel civile, sono soldato romano sotto le armi", si legge in una lapidaria iscrizione tombale di quel tempo. Era chiaro: per reggere all’ urto della "grande immigrazione" l’ impero aveva dovuto assumere una struttura "federale", accogliendo nel suo territorio popoli stranieri purché questi accettassero di difendere il Limes con le armi. I due mondi - Mediterraneo e mondo continentale - si erano sfiorati e annusati a lungo prima di scontrarsi. E’ duro assai a sgretolarsi l’ immaginario occidentale - greco-romano o giudaico-cristiano non importa - che vede l’ arrivo dei barbari come un’ orda selvaggia che rompe gli argini, sfonda una muraglia, dilaga stupefatta su terre che non conosce, passa come un caterpillar su templi, strade selciate, acquedotti, palazzi e ville patrizie. Un flagello, una massa incontenibile di guerrieri forti e incorrotti che scardina le difese di una popolazione decadente, i suoi guerrieri effeminati, i suoi affaristi imbroglioni, ne rade al suolo le città, ne rifiuta e ne abbatte gli dei millenari per sostituirli con i propri. Niente di più sbagliato per raccontare un’ epoca che fu invece di coabitazione, quella da cui nasce il mondo cristiano, che a impero defunto diventa veicolo di romanizzazione in terre mai toccate dalle legioni. Tempestose scogliere d’ Irlanda, ventosa Danimarca alle porte del Baltico, cupe foreste di Sassonia, steppe oltre il Tibisco. La stessa parola "invasioni" è depistante, perché riduce a evento da rotocalco quello che fu un processo lungo di osmosi, prima che di confronto e scontro; una coabitazione, che prolungò la vita dell’ impero anziché accelerarne il crollo. Insomma, i popoli venuti dal Nord e dalle steppe eurasiatiche vanno riabilitati, riletti come civiltà: è quanto ci dice la mostra "Roma e i Barbari, nascita di un nuovo mondo" che dal 26 gennaio sarà aperta per sei mesi a Palazzo Grassi, Venezia, campo San Samuele 3231. Una massa di reperti che travolge, sbriciola stereotipi, evoca l’ affresco grandioso di un’ epoca lunghissima. Dieci secoli, fino al tempo dei vichinghi, dei magiari e degli slavi. Ultime retroguardie delle turbolenze iniziate poco dopo l’ epoca di Augusto. All’ inizio, il barbaro è nient’ altro che il trofeo. La misura stessa della potenza dell’ impero è data - su colonne, scudi, sarcofaghi e archi di trionfo - dalla quantità di corpi nudi e barbuti massacrati dalle legioni, arrotati da quadrighe o inginocchiati con le mani legate dietro la schiena. E’ questo il senso dell’ erculea statua decapitata del prigioniero gallo scoperta in Francia a Saint Bertrand-de-Comminges; e lo stesso può dirsi delle immagini truculente di battaglia che circondano il sarcofago del Portonaccio a Roma, oppure del cammeo col trionfo di Licinio imperatore, i cui cavalli calpestano un tappeto di corpi nemici, aprendosi a ventaglio come quelli di San Marco a Venezia. «Il tema della supremazia di Roma sull’ Orbe è rappresentato in mille varianti da un perfetto sistema di propaganda» spiega Jean-Jacques Aillagon, 61 anni, curatore della mostra ed ex presidente del centro Pompidou a Parigi. «Roma è la prima civiltà che usa l’ immagine per diffondere l’ idea di se stessa e del mondo». Un’ immagine così forte, così venerabile, che il sogno resterà intatto anche dopo il crollo, vedrà nei barbari i suoi più accesi sostenitori, e si reincarnerà da Carlo Magno in poi nell’ idea di Sacro Romano Impero Germanico, di cui l’ Austria-Ungheria fu l’ ultima immagine terrena. Teodorico a Ravenna e Alarico a Tolosa pretendono di essere imperatori; re visigoti e longobardi battono monete che li vedono rappresentati alla romana; alcuni di loro - consapevoli di non poter rivaleggiare con i monumenti del passato - si preoccuparono di restaurarli. L’ acquedotto di Ravenna o le terme di Cartagine sono giunte in ottimo stato fino a noi grazie ai barbari invasori. Tempo fa un abitante di Magonza mi parlò con commozione e orgoglio del "Castrum", il campo romano della sua città. M’ accorsi che mai nessun italiano avrebbe vantato con tanta fierezza il passaggio delle legioni. Mi chiesi come mai gli eredi dei barbari Germani ricordassero Roma con più partecipazione dei latini. Cosa poteva spiegarlo se non il fascino che il mito imperiale, la sua formidabile organizzazione, la sua logistica, avevano esercitato sui popoli del Nord e del lontano Oriente? Era chiaro: la leggenda di Roma era sopravvissuta alla periferia dell’ impero meglio che nel suo centro papalino, dove un altro potere - un altro monarca circondato da ori, incensi e canti gregoriani - aveva cancellato il vecchio mondo dopo averne accelerato la dissoluzione. Erano rozzi e incolti? Ma quando mai. Aristocrazie barbare e romani avevano gli stessi modelli di autorappresentazione. L’ imperatrice Amalasunta, sesto secolo, è in tutto e per tutto bizantina; la figlia di Teodorico l’ ostrogoto ha scettro, corona, globo e dalmatica; abbina magnificamente la potenza del Nord con la raffinatezza d’ Oriente, è una valchiria nei panni di Teodora, imperatrice costantinopolitana. E che dire della croce votiva visigota di Cluny, capolavoro di oreficeria e omaggio commovente alla Chiesa di Cristo, oppure della fibbia vandalica trovata a Cartagine, tutta europea nell’ anima, segno che l’ altra sponda del Mediterraneo - quella che diede origine a Sant’ Agostino - fece parte del nostro mondo prima di essere risucchiata dal Jihad. Per non parlare del reliquiario merovingio dell’ abbazia di Sain Maurice d’ Agaune, nel Vallese, Svizzera, barbarico cofanetto che ingloba un cammeo classico e dopo quattordici secoli esce per la prima volta dalla sua teca claustrale per volare all’ estero. Roma ebbe imperatori africani e illirici, si collegò alle classi dirigenti straniere cooptandole nel senato, costruì a suo favore una rete di complicità internazionale di cui solo la massoneria inglese al tempo della regina Vittoria può dare una pallida idea. Secondo Monique Veaute, amministratrice di Palazzo Grassi, Roma è un esempio perfetto di "bon usage dell’ immigration", e sembra che sbatta questa realtà sul muso degli stati-nazione d’ Europa che oggi vedono le loro banlieues in fiamme e i loro immigrati in perenne stato d’ accusa. Georges Duby scrive che i barbari di allora «avevano un solo desiderio: integrarsi. E per integrarsi veramente era necessario farsi cristiani». E’ accaduto per Longobardi, Goti, Vandali, Alemanni, Svevi, Franchi, Daci, Sassoni e Angli. Perché oggi non accade? Forse perché il cristianesimo sapeva "inculturarsi" meglio nei nuovi popoli, tirandoli a sé senza togliere nulla alle loro identità? O perché l’ idea romana dell’ ecumene si è estinta con la fine degli imperi e il trionfo delle nazioni? L’ emblema della mostra è un busto aureo di Marco Aurelio, l’ imperatore-filosofo che muore combattendo sul Danubio. Questo reperto eccezionale, prestato a Venezia dopo estenuanti trattative dal museo Romains di Avenches in Svizzera, simboleggia il destino dell’ impero, il suo apogeo e la sua decadenza. Era il tempo in cui le legioni, irrobustite di nuovo sangue barbarico, avevano raggiunto il top della loro potenza d’ urto. Ma l’ Orbe era ormai troppo grande per resistere, in quel tempo senza telefoni, senza internet, treni e aeroplani. Le magnifiche strade romane non bastavano più, e lo sguardo di Marco Aurelio imperatore, perso verso le pianure infinite dei sarmati e dei daci oltre i Carpazi - le stesse da cui sarebbero sbucati gli Unni - sembra percepirlo come fato ineluttabile. PAOLO RUMIZ