La Stampa 25/01/2008, FABRIZIO RONDOLINO, 25 gennaio 2008
L’irresistibile discesa in seicento giorni. La Stampa 25 gennaio 2008. ROMA. Si è dunque spento il governo più pingue della Repubblica, sorto il 17 maggio 2006 nei saloni del Quirinale e composto da 26 ministri, 10 viceministri e 66 sottosegretari, per un totale di 102 poltrone, in rappresentanza di 16 distinte formazioni politiche
L’irresistibile discesa in seicento giorni. La Stampa 25 gennaio 2008. ROMA. Si è dunque spento il governo più pingue della Repubblica, sorto il 17 maggio 2006 nei saloni del Quirinale e composto da 26 ministri, 10 viceministri e 66 sottosegretari, per un totale di 102 poltrone, in rappresentanza di 16 distinte formazioni politiche. Le ragioni della sua caduta dopo appena venti mesi sono probabilmente tutte qui, in queste cifre vagamente surreali, e poco importa se la «colpa» è della legge elettorale, delle alleanze stipulate prima del voto, o dell’abilità personale del premier a gestire una situazione così complessa. Il fatto è che la frammentarietà della coalizione ne ha minato fin dall’inizio la forza propulsiva: dall’indulto alle liberalizzazioni, dalla giustizia ai Dico, dalla politica estera a quella economica non c’è stato capitolo dell’agenda governativa che non abbia subito uno stravolgimento più o meno massiccio nell’impatto parlamentare con la maggioranza. Con il risultato, tutt’altro che trascurabile, di far irritare uno dopo l’altro (e qualche volta tutti insieme) la Cgil e la Confindustria, il Vaticano e la Casa Bianca, gli statali e le partite Iva, i magistrati e gli avvocati, la maggioranza e l’opposizione. Né va dimenticata una difficoltà per così dire oggettiva, e cioè l’esigua maggioranza in Senato: un paio di voti, esclusi i senatori a vita. Se poi a questo si aggiunge il doppio movimento di un premier che s’industria a tenere insieme sedici partiti e di un partito (il partito del premier!) che proclama di voler andare da solo alle prossime elezioni, è chiaro che soltanto un miracolo ha fatto vivere Prodi fino a ieri. Il governo parte nel luglio del 2006 con il «pacchetto Bersani» e con l’indulto, ed è subito bufera. Ma se la «lenzuolata» di liberalizzazioni, pur suscitando la protesta rabbiosa dei tassisti e quella, più contenuta, di farmacisti e notai, incontra il favore di una larga maggioranza e sembra indicare una netta vocazione riformista del neonato governo, l’indulto invece sconcerta un’opinione pubblica frastornata e impaurita dalla crescente microcriminalità. E segna l’inizio dello sfarinamento della maggioranza, nonché di quel contrasto fra Di Pietro e Mastella che ne segnerà anche il capitolo finale. dell’ottobre successivo l’approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge Gentiloni, destinato però ad essere usato come strumento di pressione (o magari, come pubblicamente richiesto da Berlusconi, come merce di scambio) più che a diventare una legge vera e propria: così come, del resto, si perdono rapidamente le tracce della legge sul conflitto di interessi, che pure era stata ripetutamente promessa in campagna elettorale. Il 2007 si apre con due giorni di ritiro a Caserta per ministri e segretari di partito: l’obiettivo è rilanciare l’azione di governo. Ma la spinta riformista appare affievolita, nonostante la seconda «lenzuolata» di Bersani. A febbraio, dopo un’estenuante mediazione interna all’Unione risoltasi soltanto grazie alla tenacia e al buon senso di Rosy Bindi e di Barbara Pollastrini, il Consiglio dei ministri approva i Dico. Le conseguenze saranno catastrofiche: da un lato, si apre un fossato con la Cei e con il Vaticano destinato ad approfondirsi sempre più dopo il trionfale successo del Family Day e oggi indicato da qualche osservatore fra le cause prossime della scelta di Mastella; dall’altro, il disegno di legge viene di fatto archiviato scontentando l’opinione pubblica laica e di sinistra. Ma febbraio è un mese infausto soprattutto per la politica estera: D’Alema il 21 cade in Senato sull’Afghanistan, e con lui il governo, per il dissenso di due senatori della sinistra radicale, Turigliatto e Rossi. Napolitano respinge le dimissioni di Prodi e il 28 febbraio il governo ottiene la fiducia in Senato con 162 sì e 157 no. L’analisi di quel voto fotografa un panorama politico in piena ebollizione: quattro senatori a vita a favore, uno contrario (Cossiga), due assenti; De Gregorio, eletto con Di Pietro, nega la fiducia; l’ex segretario dell’Udc Follini passa con l’Unione; e con lui Pallaro, senatore dell’America latina. Qualche giorno dopo Prodi rende noti dodici punti «prioritari e non negoziabili» che dovrebbero rilanciare l’azione del governo. Il punto 11 trasforma il portavoce del premier in portavoce di tutto l’esecutivo: ma proprio in quei giorni arrivano nelle redazioni dei giornali le foto di Silvio Sircana sorpreso a parlare con un trans. un’altra tegola sulla testa di Prodi, che già aveva dovuto «licenziare» un altro consigliere, Pier Angelo Rovati. La «non-crisi» di febbraio, dunque, anziché appianare i contrasti paradossalmente finisce con l’esacerbarli. La primavera porta alla nascita del Partito democratico, e il 27 giugno Veltroni si candida a guidarlo. L’operazione dovrebbe rilanciare l’immagine del centrosinistra, ma ben presto si rivela l’ostacolo più ingombrante sulla strada della coalizione. Le brevi vacanze – segnate, a sinistra, dalla decisione del Comune di Firenze di multare i lavavetri, e dal vespaio che ne è nato – riconsegnano un governo e un centrosinistra oramai profondamente lacerati. La cronologia si fa affannosa. Il 3 ottobre il Senato respinge con 157 no, 156 sì ed un astenuto la mozione di sfiducia contro Visco presentata dal centrodestra dopo la rimozione del generale Speciale (che peraltro verrà reintegrato dal Tar due mesi dopo). Il 14 ottobre Veltroni viene eletto segretario del Pd da 2.666.750 italiani. un risultato inaspettato, e destinato ad accelerare la dissoluzione della maggioranza. Il 20 ottobre Prc e Pdci sfilano a Roma contro l’accordo sul Welfare. Berlusconi prevede per novembre la «spallata» che dovrebbe mandare a casa Prodi, ma l’imboscata in Senato – forse perché troppo platealmente preannunciata – non riesce, e il governo porta a casa la Finanziaria, seppur al prezzo di un ennesimo voto di fiducia e di un pubblico rimbrotto del Quirinale. Intanto il dialogo sulla riforma elettorale, apertosi trionfalmente con un vertice Berlusconi-Veltroni il 30 novembre, s’impantana ben presto nei veti incrociati e nella babele di proposte: «Vassallum», bozza Bianco, modello tedesco, doppio turno francese, ritorno al «Mattarellum», referendum... Il 16 gennaio Mastella annuncia alla Camera le sue dimissioni, dopo l’ordinanza di arresti domiciliari per la moglie Sandra Lonardo. Nella stessa giornata il ministro viene indagato per concussione e la Corte costituzionale dà il via libera ai tre referendum elettorali. FABRIZIO RONDOLINO