Corriere della Sera 25/01/2008, Sergio Romano, 25 gennaio 2008
LA GIUSTIZIA A MILANO E LE SCELTE DEI PROCURATORI
Corriere della Sera 25 gennaio 2008. Letta la sua risposta sul Corriere in tema di obbligo dell’azione penale e divisione delle carriere dei magistrati, vorrei porle due domande: 1) da cosa desume che oggi, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale, il pm, di fatto, sceglie «le azioni che gli paiono maggiormente conformi alle sue motivazioni ideali o alle sue ambizioni mediatiche», contribuendo in tal modo alla lentezza della giustizia?
A me infatti, forte della mia esperienza di quasi 14 anni alla Procura di Milano (dove mi sono occupato delle indagini e del processo per la strage di Piazza Fontana e di altri rilevanti procedimenti di terrorismo islamico e interno e di criminalità organizzata mafiosa e non, e contemporaneamente di migliaia di procedimenti per reati di infima rilevanza), risulta esattamente il contrario (potrei anche fornirle i dati della Procura di Milano, da cui risulta che la grandissima parte dei procedimenti promossi riguarda proprio reati minori).
2) Quali sono gli inconvenienti concreti (non teorici), provocati dalla carriera unica, che potrebbero essere invece evitati dalla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati inquirenti? Faccio notare che, nei confronti del processo penale, la posizione del difensore è profondamente diversa da quella del pm; questi infatti è tenuto, in qualunque fase del processo, per deontologia professionale e per obbligo di legge, sanzionato penalmente, ad accertare la verità dei fatti e quindi a mettere a disposizione delle altre parti tutte le prove acquisite sia contrarie che favorevoli all’imputato; il difensore, al contrario, è tenuto, per deontologia professionale e per obbligo di legge, a raggiungere il risultato più favorevole al proprio assistito (assoluzione o minor pena), a prescindere dalla verità dei fatti.
Massimo Meroni
Sostituto Procuratore presso la Procura di Milano
Caro Meroni,
Negli anni in cui lei ha svolto le sue funzioni alla Procura di Milano, molte vie della città furono invase da venditori ambulanti, generalmente stranieri, che vendevano borse, monili, ombrelli e altri oggetti. Dietro quel commercio vi erano fabbriche che si erano specializzate nella contraffazione, evadevano il fisco, sfruttavano il lavoro nero di venditori probabilmente clandestini: un’area grigia dove si commettevano numerosi reati di varia natura e che faceva dell’Italia, insieme alla Cina, un campione mondiale nella graduatoria dei fabbricanti di prodotti falsi. E tutto avveniva alla luce del sole di fronte a prefetti, questori, giudici, procuratori, poliziotti e carabinieri. Mi sono chiesto spesso se quello spettacolo, per un procuratore che attraversava il centro di Milano, non fosse una sufficiente «notitia criminis» e non giustificasse indagini importanti quanto quelle di cui la Procura si stava occupando in quel periodo.
Un altro esempio. Negli stessi anni vi sono stati a Milano centri sociali, frutto di vecchie occupazioni abusive, dove venivano violati quotidianamente leggi dello Stato, regolamenti di polizia urbana, norme sanitarie. E vi sono state squadre di graffitari che violavano ogni notte, spesso senza esserne neppure consapevoli, alcune elementari leggi sulla proprietà privata e facevano di Milano una delle città più imbrattate d’Europa. Ma i procuratori, oltre a perseguire crimini di sangue e altri reati socialmente importanti, hanno preferito spesso concentrarsi su questioni di grande rilevanza civile. Non ne sono sorpreso. Non è possibile perseguire tutti i reati e occorre fare una scelta. Ma qualche anno prima a New York un procuratore, Rudolph Giuliani, aveva deciso che certe forme di vandalismo urbano rappresentano, in ultima analisi, una minaccia al decoro, all’ordine e alla convivenza civili. Da noi invece molti procuratori hanno deciso che era più opportuno perseguire reati di trent’anni prima per i quali la raccolta delle prove e l’esame dei testimoni era ormai un’impresa laboriosa e spesso destinata a concludersi con risultati modesti. La sua seconda osservazione è molto importante. vero che il pubblico ministero, come si chiamava nel vecchio codice, ha sempre avuto funzioni pubbliche molto più importanti, nell’interesse della giustizia, di quelle di un qualsiasi avvocato. Ma è pur sempre un accusatore, paladino di una tesi che il giudice, prima o dopo (quasi sempre in appello), potrebbe smantellare o ridimensionare. La sua natura pubblica, tuttavia, conferisce alle sue iniziative una maggiore solennità e induce molti italiani a pensare che un atto d’accusa equivalga a una sentenza. questa una delle ragioni per cui negli ultimi quindici anni i procedimenti di giustizia hanno spesso così pesantemente interferito nelle vicende politiche nazionali. Credo che la separazione delle carriere gioverebbe in ultima analisi all’indipendenza e al prestigio della magistratura giudicante.
Sergio Romano