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 2008  gennaio 28 Lunedì calendario

La casa di riposo per gay e lesbiche. Corriere della Sera 28 gennaio 2008. BERLINO – C’è poca luce, davanti al numero 1 di Asta Nielsen Strasse

La casa di riposo per gay e lesbiche. Corriere della Sera 28 gennaio 2008. BERLINO – C’è poca luce, davanti al numero 1 di Asta Nielsen Strasse. Quartiere di Pankow, da dove non si sono mai mossi grandi scrittori dell’ex Ddr, come Christa Wolf. Un casermone squadrato di otto piani a chiudere la prospettiva, una linea di ex ambasciate di terza serie, come quella nigeriana e egiziana, a tracciare il bordo della strada. La casa è pulita, nuova, quasi vuota, e dentro non si respira un briciolo di desolazione. «Siamo qui, ecco. Questa è la casa di riposo per gay e lesbiche. A quanto ci risulta, la prima in Europa», dice la direttrice Kerstin Wecker. Una questione professionale, per lei, «ma prima di tutto personale: sono lesbica anch’io e comincio a domandarmi che farò quando sarà vecchia». Hanno aperto da pochi giorni, questa è la sera in cui si presentano alla comunità. Tre piani: l’ultimo, quello dei Fiori, riservato ai gay. «Anche gli infermieri e il personale sono omosessuali, almeno per il 50 per cento». Ma che bisogno c’è di questa discriminazione autoimposta, d’isolarsi in un ambiente iperprotetto? «Eccome se ce n’è – dice Christian Hamm, fondatore di e-Village che collabora col progetto ”. Nessuno, quando un compagno lo viene a trovare, vuole doversi girare intorno per vedere se c’è l’infermiere giusto prima di poterlo baciare. E poi, gli anziani parlano del loro passato, degli amori: è molto più facile per loro se ad ascoltarli è un omosessuale». Parlano, questi gay anziani delle loro esperienze sessuali? «Nessuno di quest’età lo fa – dice Kerstin ”. Questa è la generazione che ha vissuto sotto il paragrafo 175, che è stata costretta a una vita doppia e dove tutto, dagli affetti alle psicosi, ne è stato condizionato. Noi cerchiamo d’aiutarli a verbalizzare i traumi che forse non hanno mai avuto modo di raccontare». Paragraph 175. Il documentario con Rupert Everett come voce narrante (premiato alla Berlinale nel 2000), che racconta le vite di cinque tra gli ultimi gay tedeschi sopravvissuti ai campi di sterminio. Un simbolo del male, quel numero, dentro la comunità. Quasi come una svastica. L’articolo della Costituzione, in base al quale Hitler ha sistematicamente perseguito gli omosessuali: 100 mila portati in tribunale, tra i 10 e 15 mila nei campi di concentramento, 4 mila quelli che si sono salvati. «Sa quand’è stato abolito? Nel 1994». Gay & gray. La casa di cura è pensata per una generazione più vecchia, ma i gay coi capelli grigi in età da pensione sono 40 mila nella sola Berlino. La prima generazione, liberata dal ’68, è sulla soglia della vecchiaia. «L’altro progetto che abbiamo è di costruire degli appartamenti per loro: dove si possono ritirare, avere dei servizi da anziani, ma gestire tutto da sé, dalla spesa alla cucina», dice Christian. Scelto il luogo, Nollendorfplatz Platz, che sta ai gay a Berlino, come il Village a New York, o Soho a Londra: è qui che è nata la Szene. Mancano 680 milioni per iniziare i lavori. In questa sera di presentazioni, i gay e le lesbiche arrivano all’Asta Nielsen Haus a uno a uno. Giovani e sessantenni. Ventotto camere da riempire, quattro le persone che hanno preso contatto per entrarci. «Tre-quattro mesi, e saremo pieni», dice Kerstin. Una signora le si accoda. Borsa di nylon, tuta blu con la riga e un cappello all’uncinetto che quasi le copre gli occhi. L’odore di vestiti vecchi e urina, lo sguardo ostile. Avrà quasi ottant’anni. Qualcuno le chiede il nome. «Non ha importanza». S’informa sull’anno di costruzione della casa: «2006». Senza chiederlo la portano nelle stanze. «Non vogliamo riempirle di mobili – dice Kerstin – ciascuno può portarci la roba della sua vita». Per questo non ci sono poster. «Ma io ho sei armadi », sospira lei in un angolo. Qualcuno, maldestro, le chiede se è interessata. «No, sono qui per la conferenza». Poi scosta la tendina e resta, con il naso appiccicato al vetro, a fissare il tetto dell’ambasciata di fronte. Mara Gergolet