Panorama 31/01/2008, MARCO DE MARTINO, 31 gennaio 2008
Cuochi italiani, vi sfido TUTTI. Panorama 31 gennaio 2008. Ha voluto i suoi ristoranti tutti verniciati di bianco, non per seguire i consigli di un famoso designer di interni new yorkese ma perché si è innamorato dell’arte immacolata di Matthew Barney: «Sono andato a vedere la sua mostra al Guggenheim e sono rimasto folgorato, ho comprato le bombolette e quella notte stessa mi sono messo a dipingere di bianco tutto, anche le sedie»
Cuochi italiani, vi sfido TUTTI. Panorama 31 gennaio 2008. Ha voluto i suoi ristoranti tutti verniciati di bianco, non per seguire i consigli di un famoso designer di interni new yorkese ma perché si è innamorato dell’arte immacolata di Matthew Barney: «Sono andato a vedere la sua mostra al Guggenheim e sono rimasto folgorato, ho comprato le bombolette e quella notte stessa mi sono messo a dipingere di bianco tutto, anche le sedie». Funziona sempre così con Iacopo Falai che, a 35 anni, ha già un ristorante di grande successo (Falai), una panetteria (Falai panetteria) e un caffè (Caffè Falai) a Manhattan, e che quindi uno si immagina essere un lucido calcolatore della gastronomia di lusso alla Alain Ducasse. Invece è un geniale Woody Allen tutto vestito di nero che parla in francese e spagnolo ai suoi camerieri, allo stesso tempo mandando email e maledicendo l’iPhone. «Per me quel che conta veramente è l’amore» racconta con l’accento toscano che gli è rimasto attaccato. «Il New York Times dice che io sto costruendo un impero della ristorazione, ma la verità è che lo faccio soprattutto per mia madre, che ha avuto tante preoccupazioni e mi aspettava fino alle 3 di notte quando ritornavo da Marisa, la pasticceria di Firenze dove ho iniziato. E se dovessi dire cosa mi ha emozionato di recente, racconterei della sera quando è venuta a New York a mangiare nel mio ristorante madame Pinchiorri, la prima a darmi fiducia facendomi pasticciere dell’Enoteca a Firenze, ovvero di un tre stelle Michelin, e che mi dava da leggere i libri di cucina di Caterina de’ Medici. Io ero preoccupatissimo e quella sera ho cucinato tutto di persona, ma lei per fortuna alla fine sembrava contenta. Queste sì che sono soddisfazioni». Per Falai è sempre questione di cuore, e di una donna, che poi riporta sempre alla cucina. Per esempio, sua moglie Sofia Sizzi, disegnatrice di scarpe che fino a poco tempo fa lavorava da Calvin Klein, e che è una vegetariana convinta. In suo onore, quando ha aperto Falai nel 2005, lui ha messo tra i primi gli gnudi serviti con una nuvola di latte. E ha dato così inizio a una moda culinaria, con le palline di ricotta e spinaci che sono cominciate a comparire all’improvviso sui menu dei grandi ristoranti di Manhattan con articoli dedicati al lato femminile della cucina italiana. Pezzi che si sono andati ad aggiungere alle recensioni entusiastiche di piatti meno tradizionali come la polenta bianca, una crema di pollo servita con confit di datteri e fagiolini verdi. O la cotoletta con a fianco una purea di quince, cavolo nero e patata fondente. O il prodotto dell’ultima mania di Falai dopo la fumigazione e la disidratazione degli ingredienti, ovvero il monocromatismo: il suo risotto alla barbabietola rosa con astice e gelatina di melograno è tra le ricette di San Valentino che adornano le tre pagine che Elle ha dedicato al matrimonio in Chianti tra Sofia e il pasticciere toscano che si è trasformato in uno chef superstar. Se fosse rimasto a Firenze, il giovane Falai sarebbe magari un partner dell’Enoteca, com’è successo al suo migliore amico Riccardo Monco, che si sta facendo tatuare tre stelle sul polpaccio. «Ma come si fa a sedersi così a 28 anni? Io ho bisogno di mettermi continuamente in discussione». Dopo Firenze è arrivata l’ora di andare a imparare in Francia, da Michel Belin, cioccolatiere e consulente di Fauchon. E, dopo 3 anni, la chiamata di Sirio Maccioni a Le cirque, prima come aiuto di Jacques Torres e poi come capo pasticciere: «Ho imparato molto ma all’inizio non è stato facile. Venivo da un ambiente di grande calore, con serate passate a discettare sulle qualità del cacao indiano o africano, e mi sono ritrovato a fare 1.000 coperti a notte, in una cucina ultracompetitiva e a volte anche ostile». Una mattina, per esempio, Falai è arrivato in cucina e ha trovato distrutta da qualche collega dispettoso la ricostruzione in cioccolato della Federal reserve bank, che stava preparando per la festa di compleanno del governatore Alan Greenspan. Abbastanza per abbandonare tutto e andarsene, ma il problema è che nel frattempo lui si era innamorato. Di New York. E l’incantesimo non si è rotto neppure quando guadagnava pochissimo, o quando ha perso un dito mentre cercava di scavalcare un cancello vicino a casa per recuperare un materasso in strada. «Mi sono attaccato ancora di più a questa città, perché mentre in Italia tutti mi compativano, come se fossi menomato, qui la gente mi pigliava in giro facendomi le corna. E sinceramente mi sembrava più sano». Certo, anche nella sfolgorante Manhattan non tutto è facile. Qualche mese fa, per esempio, il New York Times ha attaccato il suo ristorante per la lentezza del servizio: «Anche se risolvi il problema, resti sempre sotto osservazione. Il ruolo dei media nella cucina di un certo livello non ha paragoni con l’Italia. E ormai bisogna seguire anche quello che scrivono di te blog e siti internet». E poi c’è un certo fastidio nei confronti della cultura americana dello spreco: «Io non posso sopportare che in questa città non ci sia il riciclaggio dei rifiuti, rivendico il mio essere ecologista ed è per questo che nel caffè ho voluto non forni a gas ma a elettricità». insomma anche forse per insofferenza che il suo prossimo ristorante Falai lo aprirà probabilmente non a New York, dove vuole continuare a vivere, ma in Italia. Per l’esattezza a Milano, dove ci sono già un finanziatore e uno spazio in zona Porta Venezia: «Ho voglia di una nuova sfida, voglio tornare a confrontarmi davvero con i grandi chef italiani». Ma allora perché non aprire un ristorante a Firenze? «Perché Firenze è troppo tradizionale. Faccio un esempio: mi ha molto colpito che la città abbia rifiutato la proposta dell’artista Christo di impacchettare il Duomo. Mi è parso strano questo rifiuto di aprirsi alla novità e al mondo. Milano è senza ombra di dubbio più aperta alla sperimentazione e forse, a questo punto, è più adatta alla mia cucina». MARCO DE MARTINO