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 2008  gennaio 20 Domenica calendario

Jovanotti, il viaggiatore. Manifesto 20 gennaio 2008.  uscito il nuovo disco di Jovanotti. Lorenzo

Jovanotti, il viaggiatore. Manifesto 20 gennaio 2008.  uscito il nuovo disco di Jovanotti. Lorenzo. Cherubini. Come volete. Si chiama Safari, una parola che in swahili evoca il «lungo viaggio», ma nell’immaginario nostro è pure tutt’altro. Turismo crudele, coloniale. Il mondo ridotto a parco dei divertimenti. Molto del lavoro di Jovanotti, non solo come musicista, ruota attorno a questa doppiezza. Inevitabile nell’(infinito) dopo 11 settembre, nel delirio securitario che chiude le porte, secca la lingua, impedisce le comunicazioni. «Safari - canta Jovanotti - nella mia testa ci son più bestie che nella foresta». Il lavoro di un cantante (e di un d.j. come lui si definisce da sempre) è quello di mettere in comunicazione le persone attraverso i suoni, di emozionare attraverso la banalità apparente e il mistero delle canzoni. Prima però vengono i viaggi. «Prima di fare il disco sono stato in Sudamerica. In Ecuador, in Amazzonia, un attimo in Perù e poi in Messico. - snocciola Jovanotti. Siamo in un bar di Milano, il pomeriggio, un po’ fuori posto. ancora presto per l’aperitivo - Sono stato a Quito, una città selvaggia, urbana. E in tutto il continente, secondo me, un cambiamento forte sta avvenendo perché c’è una classe media che comincia a esistere...». Viaggi spesso per il mondo. Lo fai da solo, a volte in bicicletta, senza dire niente a nessuno. possibile oggi per un occidentale benestante viaggiare nel mondo senza fare il turista? Secondo me è molto semplice, perché il turismo è proprio un circuito, una strada. Basta uscire fuori anche di un metro. Poi magari, dopo che stai a Panama City in un albergo da sei dollari che non ne puoi più, vai a farti un buffet nell’albergone. Potendo... Non è una posizione snob la mia. Mi prendo quello che c’è. Provo anche una vicinanza umana per il consumatore del turismo di massa, la gente che va in vacanza. Però vedo che è una specie di epidemia. L’unico consiglio che mi sento di dare ai ragazzini che vengono da me dopo i concerti è sempre quello: "vattene fatti un giro, non andare nei villaggi, fai il vecchio gioco del mappamondo metti il dito e vai lì se ci riesci". In bicicletta sei andato in Patagonia, in Pakistan, in Cina... Prima dell’11 settembre 2001, era agosto, sono andato in Pakistan in bicicletta, assieme a un ragazzo che faceva il meccanico in una ciclofficina in Romagna. Non era mai uscito dall’Italia e i primi giorni era in una condizione veramente difficile, l’avevo portato sulla luna. Poi un giorno l’ho visto seduto su un marciapiede in una città nel sud della Cina con un ragazzino. Mangiavano con le mani un melone... L’ho guardato e ho detto: è andata. Prima dell’11 settembre... Da Islamabad alla Cina. E ti dico che era facile leggere i segnali di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Però la bicicletta ha questa cosa: è un grande strumento di accoglienza. Noi venivamo accolti nel nord del Pakistan in posti poveri, talvolta proprio miseri, quasi come dei profughi. Ci offrivano da mangiare, ci dicevano "ma come state, quanti chilometri avete fatto!"... E intanto a Karakorum si vedevano gipponi di giapponesi, di occidentali. Macchine che sono già carrarmati, delle macchine da guerra e naturalmente producono un altro effetto. Il turismo come metafora della guerra. Chi lo diceva, Hakim Bey, no? A proposito di solitudine. C’è un verso di Fango che dice "io non lo so che non sono solo, anche quando sono solo". Ci si sente l’ottimismo che fa parte da sempre delle tue canzoni, ma anche la nostalgia di una comunità. Non trovi? Io ho questa sensazione, o questa fortuna, di sentirmi parte di qualcosa, anche di una società disgregata come la nostra. Essendo il terzo figlio di quattro, ho dovuto guadagnarmi degli spazi all’interno del piccolo appartamento dove vivevamo. La mia famiglia, essendo una famiglia italiana, era una di quelle famiglie che non si parlano, e che quando si parlano urlano e solo quando ci si deve confessare qualcosa. Però tutto questo è legato da qualcosa, da un’appartenenza che supera il non parlarsi. Fuori di metafora, insomma, conservi uno sguardo positivo su questo paese? No, cerco di avere uno sguardo lucido. Incontro continuamente energie creative. Incontro sguardi vivi. Poi incontro anche il dolore e la paura di sapere che quest’energia a causa di forze maggiori si spegnerà. Mi fa piangere. Vedo mia cugina che vuol fare un bel mestiere, il suo babbo e la sua mamma le danno i soldi per andare a Milano, lei si iscrive a una scuola e io dico "speriamo speriamo" perché nulla la aiuterà in questo. Farà fatica, perché questa è una società politicamente lentissima. Io mi considero un uomo di sinistra nell’accezione di Gilles Deleuze, diciamo così. Lui dice: essere di sinistra o di destra è una diversa percezione del mondo, non c’entrano le ideologie. L’uomo di destra parte dal suo metro quadro, poi c’è la porta di casa, c’è il pianerottolo, ci sono le scale, c’è la strada, c’è la città, c’è il confine, c’è l’orizzonte. L’uomo di sinistra fa il contrario. E io mi ci riconosco. In questo senso dico che non sono solo. Cerco di inserirmi in un respiro che non è solo quello dei miei polmoni. Non trovi che la cosa peggiore di questi ultimi anni sia proprio questo riflesso di chiusura, di insicurezza? Tutte cose che, al contrario, ci fanno sentire soli - scusa se ti cambio le parole - anche quando non siamo soli. Naturalmente questo delirio di insicurezza è uno strumento di controllo. Però è il racconto che viene fatto di noi come società che secondo me è al ribasso. come se quando stai dentro una stanza, non sai quello che c’è fuori e fai fatica a immaginarlo. A meno che non ci sia una crepa che fa passare uno spiraglio. Questa è la comunicazione, è l’arte, la poesia. Una volta molte famiglie avevano un parente emigrato, magari in America. Noi avevamo una zia a Montreal, e ogni tanto ci arrivavano le sue cartoline. Ci furono le Olimpiadi e lei ci mandò dei giocattoli che sembrava arrivassero da un mondo magico. Ecco, noi abbiamo bisogno di altri racconti come questo. Se ti mortificano, se la visione del futuro è mortificante, fai molta fatica a uscirne fuori. Nella conferenza stampa di giovedì è sembrato normale chiederti cose sui temi del giorno: il papa, l’aborto... Nella tua esperienza quanto credi che contino oggi le opinioni di un musicista come te? Per i media l’opinione di un musicista è moneta di scambio, è una merce. Però io credo che un musicista sia in grado di influenzarti molto con la sua maniera di comunicare, più ancora che con la parole che mette in una canzone. La voce ha un potere che noi sottovalutiamo, è la maniera in cui poni le parole. Pensa solo alla credibilità che ha Vasco, è tutta sulla voce. come quando tuo padre o tuo fratello ti dicono le cose. Ecco io sono influenzato dalla verità, dall’autenticità. E tuttavia l’autenticità si costruisce negli anni. Tu hai cominciato con Gimme five, che era un oggetto alieno, e oggi scrivi delle canzoni d’amore che quando le senti sembra di conoscerle da sempre. Io parto da un modello: la mia storia, la mia donna... Poi faccio come certi artisti che ritraggono la stessa donna per tutta la vita. Per me il mio lavoro è il quadro. Poi, sarà anche per un overdose di comunicazione, mi risulta molto difficile trovare canzoni di altro tipo che mi convincano fino in fondo. Canzoni politiche, intendi. Ci avevi provato con Salvami, un pezzo contro il delirio interventista del dopo 11 settembre. Una canzone che divenne subito oggetto di polemica per il verso "la giornalista scrittrice che ama la guerra/ perché le ricorda quando era giovane e bella". Oriana Fallaci. Quel pezzo aveva un urgenza forte, se pensi cos’era l’Italia dopo l’11 settembre. Era veramente blasfemo parlare contro l’intervento in Afghanistan, e mi sembrava di dire la cosa più semplice del mondo: questa non è la reazione, ma siamo impazziti, uno ti da un cazzotto e tu gli distruggi la casa, nemmeno sai se è stato lui. Andai in tv, a Porta a Porta e mi scontrai con la mia impreparazione a gestire la cosa. Stavo seduto accanto a Martino che era il ministro della difesa dell’epoca, e avvertivo proprio questa sensazione: mamma mia lui è di un altro mondo. Era una canzone politica che non si cantava in una piazza, ma si scontrava immediatamente con i suoi avversari. Purtroppo ne è uscita con le ossa rotte... Io sono uscito con le ossa rotte da lì. Ho passato un anno frastornato, non mi rialzavo. Mi ero reso conto che la buona fede vale poco. Ma anche che c’era una parte di me che voleva provocare, ed è stata punita. Ho fatto il situazionista che si è andato a scontrare col ministro della difesa, che non è situazionista per niente... Bum! Scompari, esplodi, come la colomba della pace di Mars Attacks!, con l’extraterrestre che la disintegra. Però è stata per me un esperienza formativa, perché mi ha detto: "stai attento a non giocare con la vita delle persone, con le guerre, coi bombardamenti"... Ne sono uscito rafforzato anche nella mia visione della politica, che oggi è un po’ più fredda, probabilmente più realistica, forse più efficace. Spero.  lo stesso realismo che ha portato Bono a fare quello che fa: incontrare i politici, fare discorsi, fare politica. Per me lui è un maestro di intelligenza. Uno che parla come un leader ricordandosi sempre di dire "sono una rockstar e quindi vi darà fastidio il fatto che vivo in una villa". uno che esce dalla stadio che canta in coro In the name of love e va da un tizio a cui chiede: ma riusciamo a ottenere questa cosa qua? Ha fatto un’intervista di recente dicendo che l’Italia non rispettava i suoi impegni in materia di stanziamenti contro la povertà. L’ha fatta prima della pubblicazione della finanziaria, e però, se guardi, nella finanziaria ora c’è un adeguamento rispetto agli impegni dell’Italia... Anche tu con la storia di cancella il debito sei entrato in questa maniera «realistica» di far politica. Ci sei ancora dentro, no? Noi siamo in una situazione anomala... sembra una battuta ma non c’è paese al mondo che c’ha Porta a porta dove non si discute di niente. A me la parola antipolitica mi fa incazzare. Mi interessa la politica, non l’antipolitica: quella è una maniera per legittimare quella politica che ci fa cagare... Allora ho incontrato la Melandri qualche mese fa. Adesso l’Italia ha due date davanti a se importanti: il 2009 in cui ospita il G8 e il 2010 coi Mondiali in Sudafrica... avevo chiesto a lei di capire insieme come organizzare qualcosa per arrivare a questi eventi, perché il 2010 è l’anno in cui l’Italia dovrebbe portare la cifra del pil da destinare alla povertà e alla lotta all’Aids dallo 0,20% allo 0,50%. Non so proprio se ce la faremo. Ma bisogna andare avanti con realismo, cambiare le leggi sulla cooperazione, perché quelli sono soldi e i soldi possono aiutare qualcuno. Alberto Piccinini