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 2008  gennaio 20 Domenica calendario

Il timoniere del dollaro sulla graticola dei subprime. Corriere della Sera 20 gennaio 2008. NEW YORK – capo della Federal Reserve da due anni, ma il mondo degli affari lo tratta come un dipendente ancora in prova: «Per gestire crisi complesse serve fegato, non raffinatezza accademica» ripetono ogni giorno operatori di Borsa e banchieri

Il timoniere del dollaro sulla graticola dei subprime. Corriere della Sera 20 gennaio 2008. NEW YORK – capo della Federal Reserve da due anni, ma il mondo degli affari lo tratta come un dipendente ancora in prova: «Per gestire crisi complesse serve fegato, non raffinatezza accademica» ripetono ogni giorno operatori di Borsa e banchieri. E, il giorno dopo l’intervento al Congresso nel quale Ben Bernanke si è detto a favore di un piano di sostegni all’economia precisando, per la gioia dei democratici, che aiutare chi ha redditi più bassi è un buon modo per rianimare la domanda, il Wall Street Journal è addirittura passato allo sberleffo: «Adesso siamo diventati tutti keynesiani ». Il barbuto professore di Princeton divenuto "sacerdote" della moneta è accusato di aver capito tardi la gravità della crisi che si stava addensando sull’economia americana, di essere intervenuto sui tassi con troppa prudenza e di aver tentato di democratizzare i processi decisionali della politica monetaria (dopo la lunga stagione autocratica di Alan Greenspan) nel momento sbagliato. «Si sentono troppe voci, i mercati non capiscono più il messaggio della Fed» lamenta Bruce Kasman, capo degli economisti di JPMorgan Chase. E perfino un personaggio molto vicino alla cultura di Bernanke come Alan Blinder – un altro economista di Princeton con un passato di vicepresidente della Fed – nota che in tempi così difficili i mercati e l’intera società Usa hanno bisogno soprattutto di leadership. Traduzione: serve uno che decida, invece di passare il tempo a costruire col bilancino il consenso all’interno del Fomc, il consiglio dei governatori della Fed. Fin dall’inizio Bernanke sapeva che la sua sarebbe stata una missione difficile: arrivava, infatti, al timone della Federal Reserve alla fine di un lunghissimo ciclo caratterizzato da uno sviluppo quasi ininterrotto dell’economia, dalla crescita delle borse e da una grande stabilità che, però, era ormai minacciata dalle dinamiche esasperate dei nuovi strumenti finanziari e dalla bolla immobiliare. Era quindi preparato ad affrontare qualche turbolenza, ma non si aspettava certo la «tempesta perfetta » di una crisi che sconvolge l’intero sistema creditizio e spinge gli Usa verso la recessione proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali. Ora, paradossalmente, i mercati sembrano rimpiangere il polso di Greenspan: uno che, a differenza di Bernanke, parlava all’inizio e non alla fine delle riunioni del Fomc, lasciando agli altri governatori solo la libertà di scegliere le parole con le quali allinearsi alle sue decisioni. Greenspan è, però, anche il banchiere che col denaro a buon mercato e, soprattutto, con le sue omissioni in materia di regolamentazione del credito, ha lasciato che la patologia dei mutui subprime crescesse fino a diventare un problema di dimensioni planetarie. Anche l’accusa a Bernanke di essere troppo esposto ai venti della politica è abbastanza ingenerosa: i governatori hanno cominciato a essere indipendenti dalla Casa Bianca solo dopo la Seconda guerra mondiale. Un’indipendenza relativa: negli anni 60, davanti a una stretta monetaria sgradita, il presidente Lyndon Johnson convocò nel suo "ranch" l’allora capo della Fed, William McChesney Martin, e, dopo aver allontanato gli agenti del servizio segreto, lo sbatté contro un muro urlando: «Mentre i miei ragazzi muoiono in Vietnam tu ti rifiuti di stampare i dollari di cui ho bisogno». I dollari, poco dopo arrivarono. E, con essi, una bella impennata dei prezzi. Qualche anno dopo toccò ad un altro governatore, Arthur Burns, piegare la testa davanti al presidente Nixon che pretendeva una politica monetaria capace di sostenere un forte sviluppo dell’occupazione: fu l’inizio dell’era della grande inflazione. I predecessori di Bernanke – Paul Volcker e Greenspan – si sono di certo mossi in modo più autonomo dalla Casa Bianca. Volcker sconfisse l’inflazione ma a prezzo di strette dolorose che sono considerate una delle cause della mancata rielezione di Carter nel 1980. E George Bush (padre) diede la colpa alla politica monetaria di Greenspan quando, nel 1992, fu battuto da Clinton. Ma lo stesso Greenspan oggi è accusato di non essere intervenuto per arginare il fenomeno dei subprime concessi anche a chi era palesemente privo di un patrimonio e di un reddito adeguati perché ideologicamente contrario a rinforzare il sistema delle regole e perché affascinato dal progetto di Bush (figlio) di creare una «società di proprietari». Bernanke, che pure è stato suo consigliere alla Casa Bianca, non appoggia i nuovi tagli delle tasse proposti dal presidente. Ha assunto una posizione neutrale e ha chiesto tagli di spesa a fronte di ogni perdita di gettito: una ricetta che a Bush non piace affatto. Del resto, ora che il suo potere è al crepuscolo e la sua popolarità è ai minimi, il presidente viene contestato apertamente anche da Greenspan. Ma, mentre l’ex governatore oggi saltella da una conferenza all’altra e da una consulenza all’altra, distillando giudizi e incassando parcelle milionarie, il suo successore è costretto a percorrere un sentiero molto stretto, portando sulle spalle un’eredità pesantissima. Per spezzare la spirale delle critiche, nei giorni scorsi ha assunto il piglio del decisionista: alla riunione di fine mese, ha fatto capire, la Fed ridurrà il costo del denaro di un altro mezzo punto. Misura consistente e opportuna ma tardiva, dicono gli economisti: attenuerà gli effetti di una recessione che, però, ci sarà comunque. E l’inflazione, che nel 2007 ha superato la soglia del 4%, continua ad allarmare e rende ogni intervento sui tassi assai rischioso. La verità è che gli strumenti a disposizione della Banca centrale sono limitati mentre la gravità degli errori commessi negli anni passati rende la crisi almeno in parte inevitabile. Ma questa consapevolezza non arresterà la caccia al capro espiatorio. Se il dollaro si indebolirà ulteriormente mettendo in fuga una parte degli investitori che hanno nel loro portafoglio ben duemila miliardi di dollari di titoli americani, la graticola sulla quale Bernanke è finito si farà incandescente. Massimo Gaggi