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 2008  gennaio 28 Lunedì calendario

STRAGE ERBA ARTICOLI VARI


LA STAMPA 26/01/2008
FABIO POLETTI
MONTORFANO (COMO). Quasi ogni settimana viene quassù, le gambe che trascina a fatica, il foulard sempre al collo a nascondere lo scempio di quella notte. Mario Frigerio, 67 anni, il vicino per bene, il quasi morto, il sopravvissuto per caso, l’unico testimone, il principale accusatore di Olindo e Rosa, al suo avvocato lo chiede ogni volta: «Vero che gli daranno l’ergastolo? Vero che poi questa storia finisce per sempre?». Vorrebbe che finisse qui, nella pace di questo cimitero nel bosco sulla riva del laghetto di Montorfano a nemmeno dieci chilometri da Erba, dove sognava di tornare a vivere con sua moglie e dove sua moglie Valeria Cherubini sorride nella foto a colori sulla tomba, rose bianche e garofani freschi, il cero di padre Pio, gli alberelli e la lampada votiva accesa sotto la data di nascita e quella di morte, 11 dicembre 2006. Il giorno in cui Rosa e Olindo combatterono la loro guerra per avere ad ogni costo un po’ di pace. « un uomo schivo, so che ogni tanto viene a trovare i suoi fratelli, poi va al cimitero dalla moglie», lo ricorda appena don Italo, il parroco della chiesa di San Giovanni dove celebrarono i funerali di Valeria Cherubini quando Mario Frigerio era ancora in ospedale, vivo per miracolo grazie a una malformazione alla carotide, intubato, sotto choc. «In via Diaz a Erba non è più tornato e mi ha detto che non ci tornerà mai più», spiega il suo avvocato Manuel Gabrielli che con un colpo di mano - lo hanno citato come testimone - i difensori di Rosa e Olindo vorrebbero estromettere dal processo. «Ora vive da una figlia, non ha più avuto rapporti con nessuno, nemmeno con Carlo Castagna che quella sera ha perso moglie, figlia e nipotino. Quasi non guarda i giornali, spera solo che il processo finisca presto», racconta il legale, la scrivania invasa dai fascicoli di questo dibattimento che sembrava già scritto e adesso bisogna vedere. Il primo giorno in aula, probabilmente Mario Frigerio non ci sarà: «Troppa confusione, troppe televisioni». Non ci sarà a guardare in faccia Rosa e Olindo che hanno ucciso sua moglie solo perchè si trovava sul pianerottolo e quasi uccisero pure lui: «Andrò al processo, voglio vederli...». A chi gli chiede se mai un giorno potrà perdonare, Mario Frigerio risponde deciso: «Non posso perdonarli ma nemmeno li odio. Non sono come Azouz, però lo capisco più di Carlo Castagna che ha perso moglie, figlia, nipotino e subito dopo ha detto che li perdona. Io non posso, non capisco come si fa...». Di Azouz Marzouk, l’altro sopravvissuto, non pensa niente. Al funerale di sua moglie non l’ha voluto. Quando ha saputo che lo avevano riarrestato per le solite storie di droga, ha detto ancora meno: «Lo conoscevo appena. Mai più visto». Di Rosa e Olindo che si sono rimangiati la confessione, pronti a giocarsi il tutto per tutto verso una improbabile assoluzione o la seminfermità mentale, Mario Frigerio non dice quasi niente: «Io so com’è andata».
Come è andata, è scritto nero su bianco nei verbali che Mario Frigerio ha riempito dalla sua stanza dell’ospedale Sant’Anna di Como, guardato a vista dai carabinieri e dai figli, i primi a sentirlo nuovamente parlare con il filo di voce che usciva dai tubi, il ricordo che tornava dalle nebbie dei farmaci: «Quando ero per terra ha cominciato a picchiarmi. Ho visto questa persona. Sembrava... Non mi ricordo più come si chiama... ma mi sembrava proprio lui». Un ricordo all’inizio confuso: «Era uno alto, con la pelle olivastra...». Il contrario di Olindo. Quello che basta ai suoi difensori alla ricerca di un appiglio. Ma già quattro giorni dopo, Mario Frigerio è più sicuro. C’era il fuoco e il fumo dietro l’uomo che lo ha aggredito, e non si vedeva bene: «Ma quello era il mio vicino con il nome strano». Un ricordo che alla fine diventa un atto d’accusa contro quel vicino che conosceva appena: «Quando la porta si è aperta, molto lentamente, ho guardato dentro e l’ho visto... Ricordo di essermi chiesto cosa ci facesse Olindo in quel casino... Sono stato afferrato, mi sono ritrovato per terra ripetutamente colpito. Quello mi teneva con una forza tremenda. Non ho sentito male, ma ho visto il gesto con cui il mio aggressore mi ha tagliato il collo... Era sempre lui, Olindo». Un racconto che Mario Frigerio non vede l’ora di ripetere in Tribunale, in faccia a Olindo che gli ha portato via la moglie e un po’ anche la vita, al giudice e alle sei donne della giuria popolare da cui si aspetta una cosa sola. Una volta per tutte. In una deposizione magari a porte chiuse come vorrebbe il suo avvocato. Oppure no, basta che sia l’ultima: «Vero che poi gli danno l’ergastolo?».

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LA STAMPA 27/01/2008
ANTONIO SCURATI
Erba, il circo dell’odio. Martedì a Como si aprirà il processo per l’omicidio di Raffaella Castagna, 31 anni, una laurea in psicologia, un figlio piccolo e un matrimonio sbagliato, di Paola Galli, madre di Raffaella, Dama di San Vincenzo e nonna affettuosa, di Valeria Cherubini, vicina di casa solidale e premurosa, entrambe in visita alla casa sbagliata nel momento sbagliato, e del piccolo Yousseff, soltanto due anni e soltanto la sventura di essere venuto al mondo nel mondo sbagliato. Quello di Como sarà il processo per fare giustizia su uno dei delitti più atroci degli ultimi anni, il massacro dei proprio vicini di casa compiuto da Rosa Bazzi e da Olindo Romano, che tutti abbiamo imparato a conoscere con il nome sinistramente bucolico di "strage di Erba". Il processo si celebrerà in una piccola aula di tribunale - solo sessanta i posti riservati al pubblico, assegnati in base a numeri distribuiti per regolare l’ingresso - ma si celebrerà soprattutto sui mass media di ogni genere e sorta. Sono, infatti, più di cento le testate giornalistiche accreditate, alcune perfino straniere. Nessun mezzo, sia nel senso di veicolo informativo sia nel senso di espediente, sarà risparmiato dalla fascinazione per l’evento. Basti pensare che dei truffatori col fiuto dei tempi hanno messo in vendita su Internet, al costo di 85 euro, dei falsi biglietti d’ingresso in aula. Violenza devastante Abbiamo scritto che il processo "si celebrerà " ma, forse, si è già celebrato. L’opinione pubblica ha già guardato a fondo nell’abisso di orrore spalancatosi nella tranquilla cittadina pedemontana, è già inorridita, ha già pronunciato la sua sentenza: fine pena mai. Come sempre, l’attenzione sarà smodata, il circo mediatico eccessivo, mainutile negare che il caso, sebbene sia un caso risolto, presenta molti elementi di grande interesse, tanto da farne uno di quegli specchi aberranti in cui il Paese riflette il proprio volto guardandosi nelle sue deformazioni. C’è l’efferatezza inaudita di quattro innocenti sgozzati a coltellate - e l’efferatezza ipnotizza gli uomini miti come la fiammaattrae l’ala fin troppo combustibile della falena notturna. C’è lo sbocco di violenza devastante e imprevedibile di due esistenze fino ad allora esemplari di una normalità feroce perché prigioniera della propria grettezza - e la banalità del male suggestiona gli uomini miti perché ricorda loro come il destino apparentemente invariabile sia in verità la posta di un getto di dadi, di una mano del caso. C’è la stupefacente testimonianza cristiana di Carlo Castagna, il padre di Raffaella e nonno del piccolo Yousseff, che ha trovato nella sua fede la forza per perdonare, a cadaveri ancora caldi, gli assassini delle persone amate - e la vera fede abbaglia gli uomini miti di questo nostro Paese che, avendo smarrito ogni altra fede, si riscopre all’improvviso Cristiano come lo sbadato che, battendosi la fronte con la mano, si ricordi di aver lasciato i guanti sul banco del barbiere. Inoltre, a rinfocolare l’interesse, sulla strage di Erba soffia il fiato acido dell’odio tra stranieri, che portò nei primi giorni a sospettare assurdamente Azouz Marzouk, il padre e marito tunisino delle vittime, sebbene si trovasse all’estero - e l’alito marcio dell’odio tra stranieri riguarda molti degli uomini miti che vivono nell’Italia di inizio millennio perché se lo sentono sul collo ma, soprattutto, quel fiato maleodorante se lo sentono salire in gola sempre più spesso; ci soffia, infine, sulla strage di Erba, il fiato ancora più pestilenziale dell’odio tra vicini, la ferocia da pianerottolo, quell’assenza di autentici motivi per vivere e per morire che sempre più spesso ci spinge a uccidere senza moventi, per un lieve ma persistente fastidio, per un sacchetto della spazzatura ancora una volta chiuso male, per un tamponamento al semaforo dopo l’ennesima coda nell’ennesimo ingorgo in calce all’ennesima sciocca giornata di lavoro, ci soffia l’alito mefitico della rabbia verso gli uomini e le donne della porta accanto, verso i parenti, i congiunti, le ex fidanzate, i compagni di banco e di partito, i colleghi d’ufficio e di mestiere, l’odio verso il prossimo tuo, quell’onda omicida che sempre più spesso monta in noi verso i personaggi della nostra vita quotidiana da quando, tramontata all’ orizzonte la Storia, smarrita la memoria del passato e l’aspettativa del futuro, l’unica vita che ci rimane è proprio la vita quotidiana. Si fa un gran parlare delle deliziose ristrettezze della vita quotidiana, una retorica oggi smodatamente di moda si ostina a magnificarcene le virtù, a presentarcela come la patria di ogni valore, la dimora di ogni affetto, la nicchia di ogni conforto, e già questa parola, perdendo la sua ultima vocale, perde anche ogni risonanza metafisica, ogni vibrazione profondamente umana: ora si scrive comfort e significa niente più che un tinello pulito, un divano in finta alcantara e un televisore acceso. L’orrore del quotidiano Da tutte le parti, eserciti di propagandisti del dio (si scrive minuscolo) delle piccole cose - pubblicitari, politici e imbonitori televisivi in testa - ci vogliono convincere che la vita quotidiana è una vita meravigliosa, che basta saperla prendere per il verso giusto e ci ritroveremo contenti di dedicarci per 60 anni a lustrare i ninnoli sul comodino, a spettegolare del vicino, ad aspettare le prossime elezioni, il prossimo derby, i prossimi saldi di fine stagione per fare ancora una volta la parte del cretino. Ci vogliamo persuadere che non c’è nessuna necessità di guardare oltre, di uscire dal cono d’ombra in cui la vita quotidiana inghiotte le cose vicine, che in fondo va bene così, comunque vada, che bastano le nostre cazzatine di tutti i giorni a riempire la vita. Poi un giorno l’anonimo spazzino e la sua gentile consorte maniaca dell’ordine ti sgozzano i vicini perché tenevano troppo alto il volume del loro televisore e allora ti ricordi che la vita quotidiana è la tomba di ogni passione ma sa essere anche la culla della passione omicida. Scopri che esiste una maledizione della vita quotidiana. La maledizione di non avere che quella.

Sedici le udienze previste nel processo che si apre martedì presso la Corte d’Assise di Como e che dovrebbe terminare il 31 marzo. Ma il calendario non non può che essere ufficioso, dal momento che sono difficilmente prevedibili le mosse della Procura e ancor più quelle della difesa. Con i due giudici togati, sono sei i giudici popolari, tutte donne, ad eccezione del presidente Alessandro Bianchi. 10/10/2007
Colpo di scena al tribunale di Como durante l’udienza preliminare per la strage di Erba. I due coniugi ritrattano la lunga confessione. Olindo Romano si dichiara innocente. La moglie dice: «Non ho ancora detto tutta la verità». 11/1/2007
Dopo un lungo interrogatorio, messi di fronte ad alcune prove, Olindo e Rosa Romano confessano di essere gli autori della strage. I moventi sono futili: le continue liti condominiali e un odio folle covato per mesi. 13/12/2006
Azouz Marzouk, marito tunisino di Raffaella Castagna, viene definitivamente scagionato. Irrintracciabile subito dopo il delitto, viene sospettato. Ma i tabulati delle sue telefonate intercorse con il suocero dimostrano che era in Tunisia. 7/1/2007
I coniugi Romano vengono fermati dalla polizia con l’accusa di omicidio plurimo e aggravato, e trasferiti nel carcere di Como. Si proclamano innocenti, ma l’unico sopravvissuto della strage, Mario Frigerio, riconosce Olindo.

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LA STAMPA 28/01/2008
FABIO POLETTI
’Abbiamo la coscienza a posto”. COMO. Olindo Romano ha la barba incolta, molti chili di meno, la solita sigaretta tra le dita e una sfrontatezza mai vista quando si presenta con un mezzo sorriso a tutti quelli che passano davanti alla sua cella, carcere del Bassone di Como, primo piano, gli agenti di custodia sulla porta che non si sa mai: «Piacere, sono il mostro di Erba». Nel reparto femminile poco più in là, sua moglie Rosa Bazzi passa lo straccio sul pavimento, la televisione è accesa ma quando si parla della strage di Erba cambia canale, la cella in ordine come mai, anche le riviste sono impilate con cura sullo scaffale: «Qui mi fanno vedere il mio Olindo solo una volta la settimana, solo per un’ora ogni giovedì. Noi comunque abbiamo la coscienza a posto». Chi li vede dice che sono due detenuti modello. Forse inconsapevoli di quello che li aspetta. Tranquilli di quella folle tranquillità che li porterà ad essere in un’aula davanti agli sguardi di Azouz Marzouk che si è salvato solo perché era in Tunisia, di Mario Frigerio che si è salvato per caso e di Carlo Castagna che li ha perdonati perché non sapevano quello che facevano.
Il silenzio
Gli echi delle proteste contro di loro in questo carcere che sembra una fortezza si sono spenti da tempo. Adesso regna il silenzio. Quel silenzio che secondo l’accusa hanno inseguito ad ogni costo, col coltello e con una spranga, sterminando i vicini del piano di sopra così rumorosi, vivaci. Vivi.
Di quello che li aspetta domani nella Corte d’Assise di Como, cento giornalisti, cinquanta telecamere, una folla di curiosi, borbottano tra loro e con i loro avvocati: «Speriamo che ci credano». Sul piatto della bilancia dell’accusa ci sono oltre 400 pagine di confessioni dettagliate. Quelle dove Olindo Romano, netturbino sovrappeso, si sfoga come un fiume in piena: «Siamo entrati, prima io e mia moglie, ho colpito la Raffaella subito, ho colpito la madre subito e mia moglie è corsa dal bambino...». E dove Rosa Bazzi, casalinga apparentemente tranquilla, spiega come ha ammazzato il piccolo Youssef che faceva più rumore di tutti e perché sia ben chiaro a tutti quello che ha fatto, muove le mani nell’aria a tirare fendenti: «Il bambino l’ho fatto io. La mamma l’ho fatta io e gliene ho date tantissime e idem anche alla Raffaella. Tantissime coltellate». Roba da ergastolo, si capisce. Se non di più, come vorrebbe il tunisino Azouz Marzouk, la famiglia sterminata e anche lui dentro la gabbia per vecchi affari di droga (ma domani sarà in aula, come parte civile): «Per quello che hanno fatto non basterebbe la pena di morte». E invece come se niente fosse, ai primi di ottobre, il giorno del rinvio a giudizio Olindo Romano si alza in piedi davanti al giudice e si rimangia tutto: «Vorrei dire che sono innocente e che sono preoccupato per Rosa». Rosa Bazzi in aula non c’era ma manda un bigliettino: «Non corrisponde a verità quanto ho detto nelle precedenti dichiarazioni».
Fabio Schembri, che insieme a Luisa Bordeaux difende Olindo e Rosa, ammette che non sarà un processo facile: «Speriamo che il troppo clamore non nuocia al dibattimento. Altrimenti il codice prevede anche la possibilità di cambiare sede». I centocinquanta testimoni che ha chiesto dovrebbero servire a smontare la ricostruzione dell’accusa. Tra loro anche un docente torinese esperto di Sindone, che sulla base delle primissime confuse dichiarazioni dell’unico sopravvissuto ha ricostruito un identikit alternativo del possibile assassino. Uno alto, con la pelle olivastra, forse uno straniero. Uno che non c’entra niente con Olindo Romano.
Difesa senza speranze
Ma ora più che mai saranno Olindo e Rosa a dover convincere i giudici. Olindo Romano che vorrebbe cancellare duecento pagine di dettagliatissimi verbali sostenendo di avere ricevuto pressioni dagli investigatori: «Mi dicevano che se non confessavo non avrei più rivisto mia moglie. Ma non siamo stati noi. Se no saremmo scappati in Svizzera. Tanto si capiva che eravamo noi i sospettati». Rosa Bazzi che in cella fischietta quando tira la coperta grigia sulla branda: «Sul mio conto hanno detto solo balle». Il pm Massimo Astori in aula porterà anche i bigliettini indirizzati a sua moglie trovati nella cella di Olindo. E le annotazioni a margine di una Bibbia, l’unico libro in cella insieme a una pila di Diabolik. Annotazioni che per il magistrato sono l’ennesima prova che sono stati loro: «Accogli nel tuo Regno il piccolo M. Youssef, sua mamma C. Raffaella, sua nonna G. Paola e C. Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo Dono, la Vita».
«La nostra città vuole solo giustizia, non un processo trasformato in spettacolo a uso e consumo delle televisioni». Lo dice il sindaco di Erba, Marcella Tili (Forza Italia). La prima cittadina erbese misura e soppesa ogni parola prima di pronunciarla: «Qui, in città, nessuno vive con quell’ansia maniacale che sembra aver contagiato tutti in questi giorni, pronti anche a metter mano al portafogli per pagare pur di entrare in aula, dimenticando che è un processo per un fatto che ha sconvolto l’opinione pubblica e che, soprattutto, sono morte tre donne e un bambino di soli due anni».


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Corriere della Sera 27/01/2008
Giusi Fasano
«Giusto ucciderli ma non siamo stati noi». COMO – Più di cento pagine zeppe di fotografie e di termini difficili perfino da leggere. la relazione del Ris di Parma sulla strage di Erba: rilievi voluti dall’accusa ma risultati, alla fine, più utili per la difesa. Tanto da convincere gli avvocati dei due imputati, Luisa Bordeaux e Fabio Schembri, a indicare nella loro lista testi i firmatari della relazione, il colonnello Luciano Garofano, un capitano e due tenenti.
Già con questo, a due giorni dall’inizio del processo in corte d’Assise, siamo al primo colpo di scena. Perché se da una parte gli avvocati di Olindo e Rosa chiamano a difesa dei loro assistiti i carabinieri del Ris, dall’altra i magistrati li escludono dalla lista dei testimoni, segno evidente che l’esito della relazione scientifica non è ritenuto utile a sostenere questo o quel punto del teorema accusatorio, mentre vale il contrario per le tesi della difesa.
Sarà per questo che per Olindo e Rosa il rapporto dei Ris è un punto di speranza, per i loro avvocati è un punto a favore, per i periti è un punto di partenza. A cominciare dalla conclusione, quattro righe e mezza per dire che non c’è traccia di profili genetici delle vittime a casa dei presunti carnefici, né sono state rilevate tracce di Olindo Romano e Rosa Bazzi a casa delle vittime. Non ne sono state trovate, scrivono i Ris, «nonostante i reiterati sforzi analitici profusi ». Quanto basta per far dire al professor Carlo Torre e alla dottoressa Valentina Vasino (periti della difesa) che «certo c’è qualcosa che non torna alla luce di questo risultato tecnico ». Torre e Vasino hanno firmato un primo breve rapporto allegato agli atti del processo che si aprirà a Como martedì prossimo. Dice: «Un risultato tecnico di questo tipo contrasta palesemente con l’ipotesi di un diretto coinvolgimento dei coniugi Romano in un fatto caratterizzato da grandissima contaminazione ambientale di materiali biologici delle vittime (sangue, capelli, frammenti ossei)».
Il «reale accadimento dei fatti», secondo l’accusa, è quello che Olindo e Rosa hanno dichiarato nelle loro confessioni, poi ritrattate. Sono loro due che preparano il delitto, che salgono al piano di sopra e massacrano Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef e sua madre Paola Galli. Poi incappano nella coppia che vive in mansarda, Valeria e Mario Frigerio: lei uccisa, lui sgozzato, creduto morto e per questo ancora vivo oggi, testimone- chiave della mattanza. Sono loro due che dopo il massacro fanno il possibile per crearsi un’alibi. «Elementi schiaccianti », dicono in procura. Come la macchia di sangue di due delle vittime trovata nell’auto di Olindo. Più che un processo, per i due imputati sarà un percorso a ostacoli e all’orizzonte, se andasse male, c’è l’ergastolo. Eppure i coniugi Romano non sembrano scoraggiati, soprattutto lui, che nel carcere di Como passa il tempo a scrivere: «pizzini» e frasi sulla bibbia, parole d’amore, citazioni, pensieri che ai magistrati suonano come ammissioni. Olindo che annota tutto il suo rancore contro Raffaella: «Ci hai rovinato la vita e il resto della nostra esistenza». Non nasconde l’odio per la sua vicina ma poi nega di averla uccisa: «Chiunque li ha uccisi ha fatto bene». lui che suggerisce a Rosa di non presentarsi all’udienza preliminare: «Sarebbe come mettere un agnello in mezzo a un branco di lupi». Scrive dei loro colloqui in carcere: «Rosa, ha sognato Raffaella con il sangue sul volto e i colpi che io le ho dato quando la uccidemmo. In sogno le ha detto che abbiamo fatto bene a uccidere». E poi frasi contro il padre di Raffaella, Carlo: «Sapeva tutto, non ha mai fatto nulla per evitare la strage». A Rosa: «Quando moriremo tieni con te tre monete per Caronte, il traghettatore delle anime, sennò vagheremo fra i due mondi all’infinito». In questi giorni Olindo parla solo del processo, non sa ancora se verrà in aula, sa che non vuole arrendersi e al suo avvocato ha confidato ieri «siamo innocenti, la sola cosa che mi spaventa è sapere che in qualche modo la gente ci abbia già condannato».


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LA REPUBBLICA 28/01/2008
EMILIO RANDACIO
MILANO - L´unica certezza che manca è quella sulla presenza in aula di Rosi e Olindo. Sul resto, alla vigilia del processo per la strage di Erba, tutto sembra pronto. La Corte d´assise di Como ha fissato 16 udienze, da domani a metà marzo, due ogni settimana, nella speranza di arrivare in tempi record a una sentenza. Il Tribunale ha organizzato gli ingressi: 40 posti in aula per i giornalisti, 30 per il pubblico, uno stanzone poco distante adibito a sala stampa con annesso maxischermo per seguire la diretta del dibattimento.
La riserva, loro - la coppia insospettabile di Erba che la sera dell´11 dicembre del 2006 si sbarazzò con metodi da killer professionisti dei vicini Raffaella Castagna, del piccolo Youssef, della nonna Paola, della vicina Valeria Cherubini, per poi andare in un fast food di Como per crearsi un alibi - la scioglieranno solo oggi. Il loro avvocato li andrà nuovamente a trovare in carcere, come successo già sabato scorso, per sapere la loro decisione. Certamente in aula sarà presente Azouz Marzouk, il marito di Raffaella, il padre di Youssef, che, nonostante si trovi a sua volta detenuto con l´accusa di spaccio di stupefacenti, ha annunciato di «volerli guardare negli occhi».
Tutto pronto, insomma, si assicura da Como, anche se le incognite sul processo sono moltissime. Arrestati l´8 gennaio del 2007, quasi un mese dopo la strage, i coniugi Romano hanno confessato poche ore dopo aver conosciuto le mura del carcere Bassone. Ricostruzioni minuziose, con il passare dei giorni, anche univoche. Il puzzle, per la procura lariana, si era insomma ricomposto in tutti i suoi tasselli. Il loro legale, Pietro Troiano, alla vigilia della richiesta del rinvio a giudizio, stava pensando a un rito alternativo capace di «limitare i danni», di evitare un processo pubblico imbarazzante per i due suoi assistiti, differenziando anche le posizioni.
Poi è cambiato improvvisamente qualcosa. Rosi e Olindo hanno deciso di abbandonare questa linea, lasciare Troiano. Davanti al gup il primo colpo di scena: non siamo stati noi. Tesi incredibile per la mole di prove raccolte in quel mese successivo alla strage. Soprattutto una macchia di sangue sul lato passeggero della Seat Arosa del netturbino di Erba. Era di Valeria Cherubini, ha sentenziato la perizia affidata all´università di Pavia. Nel frattempo erano arrivate le intercettazioni ambientali in carcere, i "pizzini" scovati tra i libri sfogliati da Olindo: «Siamo stati noi». Niente. I Romano vogliono stare insieme anche nella cattiva sorte e ora, attraverso i nuovi legali, Luisa Bordeaux e Luigi Schembri, tenteranno da domani mattina di smontare pezzo per pezzo la ricostruzione della procura e la non veridicità delle prime ammissioni fatte dai due imputati.
Oltre 150 i testimoni che presenteranno alla Corte d´assise. Proveranno a puntare sulla perizia dei Ris sul luogo della strage, in cui pacificamente non ci sono impronte dei Romano (la casa era stata data alle fiamme), incrinare le certezze dell´unico sopravvissuto, Mario Frigerio, vedovo della signora Cherubini. Gravemente ferito, dal letto di ospedale, prima di Natale 2006, non aveva immediatamente indicato Olindo come il responsabile, ma giorni dopo.
Al pm Massimo Astori, invece, basteranno 53 testi. Tra loro, anche l´ex numero uno della Security Telecom, Giuliano Tavaroli, che durante il suo peregrinare da un carcere all´altro, si è ritrovato nella cella a fianco di quella di Olindo. Anche lui avrebbe raccolto le confessioni del netturbino.


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