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 2008  gennaio 24 Giovedì calendario

Io e mio nonno Le prove-coraggio e i film a Parigi. Corriere della Sera 24 gennaio 2008. TORINO – Ingegner Elkann, qual è il primo ricordo di suo nonno? «Fino a cinque, sei anni sono ricordi "costruiti", attorno a racconti, a fotografie

Io e mio nonno Le prove-coraggio e i film a Parigi. Corriere della Sera 24 gennaio 2008. TORINO – Ingegner Elkann, qual è il primo ricordo di suo nonno? «Fino a cinque, sei anni sono ricordi "costruiti", attorno a racconti, a fotografie. I primi ricordi veri sono legati alla montagna. Mia nonna Marella passava l’inverno nella casa di St. Moritz, e il nonno la raggiungeva spesso. Facevamo colazione insieme, uscivamo a passeggio. Soprattutto, andavamo a sciare. E lui ci stimolava ad affrontare i rischi: scegliere il versante più difficile, spingerci in zone che non conoscevamo». Il coraggio fisico come iniziazione? «Sì. Era appassionato di skeleton, una specie di slittino con cui si scende a testa in giù. Il nonno lo considerava un’esperienza molto formativa. Bisognava essere maggiorenni, ma si procurò un permesso speciale perché facessi la prima discesa a sedici anni. Mi divertii tantissimo, scivolare in quel corridoio di ghiaccio dà molta adrenalina; ma devi imparare a controllare la discesa, se vuoi arrivare in fondo». Com’era con voi bambini? «Rapido, vitale. Giovane: tra lui e me ci sono 55 anni, come tra il Senatore e lui. Capitava, a marzo o aprile, di svegliarci presto, sciare, poi andare al mare a fare un tuffo nelle acque ancora gelide, e rientrare il pomeriggio a Torino. Era molto curioso e stimolava la nostra curiosità, voleva che fossimo sempre superinformati sulle cose che pensava dovessimo conoscere». Vi portava al cinema? «Spesso, a Parigi, dove vivevamo. Il nonno ha sempre incoraggiato la nostra libertà, e talora ci consentiva di decidere per lui. Spettava a noi scegliere il ristorante; ma se non era buono, ce lo faceva capire. E sceglievamo noi il film. L’indicatore era quanto tempo restava seduto a guardarlo». E se il film non gli piaceva? «Si alzava e se ne andava. Noi lo seguivamo, un po’ dispiaciuti. Poi abbiamo capito che aveva ragione lui, che se un film non parte bene difficilmente migliora». Dove andavate insieme, a Parigi? «Alle mostre. Quelle del Louvre e del Musée d’Orsay, e quelle più piccole: amava l’atelier di Delacroix, la casa di Moreau; si fermava su un dettaglio, ad esempio il muso di un cavallo che Géricault aveva dipinto come un ritratto. Si andava dagli antiquari di rue du Faubourg Saint-Honoré. E al Café Flore, il suo preferito, perché si mangiava in fretta». Non amava indugiare a tavola? «No. Gli piaceva concentrare le cose, comprimere il tempo per cogliere quel che era importante dagli interlocutori. Non ho mai visto in nessuno la sua capacità di avere contatti così diversi, in ogni campo. E amava informarsi in prima persona per i suoi tanti interessi». Gli piaceva il rischio anche in barca? «Non il rischio fine a se stesso. Non ci spingeva a fare cose incoscienti. Voleva che, nel fare, imparassimo a misurare i limiti. Ricordo una traversata a vela dalla Liguria alla Francia: era una giornata bellissima, d’improvviso scoppiò una burrasca, e il nonno insistette per attraversarla, per mantenere la rotta. Ma ricordo anche quando venne a vederci sul lago di Garda: ci impegnammo al massimo, ma la barca scuffiò e finimmo in acqua. Ci prese in giro a lungo». Quali erano i suoi luoghi preferiti in mare? «Il Mediterraneo tra Napoli e Marsiglia. In particolare, la Corsica, che amava perché era facile trovare un buon vento e difficile essere riconosciuto. Gli piacevano molto le Calanques di Cassis, dove incontrava Platini: il nonno era incuriosito da tutte le cose che faceva, il ct della nazionale, l’organizzatore dei Mondiali. Le sue opinioni erano ascoltate. Fu Platini a caldeggiare l’acquisto di Zidane». Com’era il rapporto con la Juve? «Era innanzitutto un grandissimo tifoso. Della Juve, ma anche della nazionale: abbiamo visto insieme Italia-Brasile, la finale del Mondiale ”94. Quando Baggio sbagliò il rigore, ci rimase malissimo. Nel calcio apprezzava il talento e anche la disciplina, la tenuta. Mi portava spesso alla partita. Non amava vincere sull’errore altrui, ma il bel gioco, il tocco di genio. La sua Juve ideale doveva mostrare spirito combattivo, mai arroganza. Dello sport apprezzava l’imprevedibilità, e le rimonte. La vittoria della Ferrari all’ultimo Mondiale gli sarebbe piaciuta moltissimo». La sua altra grande passione fu l’editoria. «Era un grande lettore di quotidiani. E amava interpellare direttamente i giornalisti, perché li trovava informati e sintetici. Era veloce nel porre le domande, capiva subito se l’interlocutore gli stava dando o no informazioni utili. Non parlava solo con il direttore; per sapere del Papa alla Sapienza avrebbe chiamato il vaticanista della Stampa. Era in contatto anche con i tanti corrispondenti esteri». Chi stimava in particolare? «Tra i giornali l’avventura di Repubblica rappresentava ai suoi occhi l’impresa editoriale di maggior successo. E mi raccontava che all’inizio nessuno avrebbe scommesso sulla sua riuscita. Mentre il giornalista per eccellenza era Montanelli. Gli piaceva il fatto che avesse un’opinione sempre pronta su tutto, e che fosse un’opinione libera, diversamente dai tanti che gli dicevano quel che credevano lui volesse sentire. Montanelli ad esempio sosteneva che il migliore editorialista italiano era stato Mussolini quando scriveva su l’Avanti». A diciott’anni lei si trasferì a Torino, in collegio, per frequentare il Politecnico. Perché? Glielo chiese l’Avvocato? «No. Fu una mia scelta, che il nonno approvò. Anche in quella circostanza fu fedele alla sua idea di rispettare la nostra autonomia. Conoscevo Torino, dove ogni anno passavo – tra la città e Villar Perosa – la fine dell’estate; ma avevo sempre abitato all’estero. Così ho scelto di studiare in Italia. C’era la possibilità della Bocconi. Ma io volevo fare ingegneria al Politecnico di Torino». Qual era davvero il rapporto tra Agnelli e la città? «Strettissimo. Gli piaceva la sua dimensione ideale. Ne apprezzava l’estetica, l’armonia delle piazze, lo sfondo delle montagne, il Po e soprattutto certi luoghi-simbolo: il museo del Risorgimento, il municipio, la cappella della Sindone, il Valentino, la Mole, il Museo egizio. Una volta mi portò con Kissinger nei sotterranei della Cittadella, sui luoghi di Pietro Micca». Lei si sentiva sottoposto a un tirocinio, a una serie di esami? «Continuamente. Ma non in senso negativo. Il suo era un insegnamento diretto, per trasmettermi la precisione, l’attenzione alle cose, la responsabilità delle decisioni. Credeva nella libera scelta anche perché pensava che, se uno fa quello per cui è portato, lo fa meglio». Suo nonno le presentò anche Cuccia, vero? «Sì. Io ero molto intimidito. Da quel che avevo letto e sentito, mi aspettavo una persona severa. Invece fu molto amichevole; nello sguardo, oltre che nelle parole di incoraggiamento». Il rapporto tra Cuccia e Agnelli come le sembrò? «Al confronto, mio nonno era giovane...». E il rapporto con Berlusconi, com’era? «Lo incontrammo molto prima che entrasse in politica. Poi lo rividi altre volte, in circostanze più formali. Mi diede l’impressione di una persona che lavorava moltissimo, e che ci teneva a trasmettere simpatia». A suo nonno era simpatico? Condivise la discesa in campo? «Sì, gli era simpatico. Ma per il nonno era difficile riuscire a conciliare la figura dell’imprenditore, che serve il proprio interesse e, attraverso quello, la collettività, e il politico, che deve mettere gli interessi della collettività al centro. La sua idea era che, se sai fare bene una cosa, è importante fare quella. Ciò non toglie che un imprenditore possa far bene anche il politico». E con i comunisti, da un certo momento in poi ex comunisti? «I rapporti erano buoni, anche perché il nonno rispettava molto la loro formazione e la loro preparazione. Considerava il Pci una scuola seria per affrontare la politica». C’era qualche uomo politico cui si sentiva particolarmente vicino? «Ciampi. Avevano un rapporto forte perché avevano vissuto le stesse cose – la guerra, la ricostruzione, gli Anni Settanta – e condividevano la stessa fiducia nel futuro». La memoria dell’Avvocato è coltivata in modo diverso, talora capovolto rispetto al passato, a seconda degli orientamenti politici. La sinistra, che lo ebbe come avversario naturale, ne ha ora una concezione irenica, pacificata. Le critiche vengono invece da destra, per vari motivi: l’accordo con Lama; l’immigrazione dal Sud; gli aiuti dello Stato... «A me pare sia rispettato come persona che aveva a cuore l’interesse del sistema nel suo complesso. Questo gli viene riconosciuto dal mondo della sinistra; come ha fatto di recente il presidente Napolitano, ricordando gli obiettivi comuni di sviluppo e di modernizzazione del paese seguiti da mio nonno. E d’altro canto non mi pare che le critiche vengano dalla destra migliore, quella preponderante e che ha a cuore l’interesse generale, bensì da una parte minore, molto "vocale", che al centro mette l’interesse localistico o corporativo ». Dopo il Politecnico, lei andò a lavorare in America. Fu suo nonno a richiamarla, quando si ammalò? «No. Era il maggio 2002. Con mio fratello, decidemmo che la cosa giusta era tornare a Torino. Per stare con lui e lavorare nel gruppo. Lui non ci ha mai detto: fate bene, fate male. Ci ha accolti». Come ricorda la sua malattia? «Per il nonno fu una sorpresa. Non aveva mai pensato a una malattia; aveva sempre creduto di morire di morte violenta. Imparò a conviverci. Era rattristato che coincidesse con una congiuntura negativa per la Fiat. Ma era convinto che nessun problema fosse insormontabile, che la crisi sarebbe passata». E per sé, cosa presagiva? «Sapeva di non avere speranza. Continuò fino all’ultimo a fare la vita di sempre, dentro casa, a mangiare le stesse cose, a coltivare gli stessi interessi. Fu lucido sino alla fine. Consapevole. Della malattia non parlava mai. Con la famiglia fingeva di credere in un nuovo ciclo di terapie, per tranquillizzarci». Come ricorda la sua scomparsa? «Ero con lui, quella sera. Si è addormentato e non si è svegliato più. Lui diceva che i funerali sono fatti per chi resta, non per chi se ne va. Era rimasto colpito dal funerale di suo padre, molto affollato, e da quello di suo nonno, quasi deserto. Fu smentito clamorosamente. I suoi funerali furono fatti per lui. La reazione dei torinesi, degli italiani fu straordinaria. Quel giorno noi della famiglia abbiamo cercato di salutare più gente possibile. Ci diede un grande conforto vedere quanto affetto lo circondasse». Cosa significa per lei il ruolo che ha ereditato dal nonno, lui che era il punto di riferimento della famiglia? «Per me la famiglia è intesa come nucleo di affetti. Persone che sono unite dal piacere di restare insieme, non da vincoli o da obblighi. In una casa stai bene se puoi uscirne. Deve essere una libera scelta». Lei è entrato nel consiglio d’amministrazione della Fiat alla stessa età dell’Avvocato, 22 anni. Però, a differenza sua, non ha conosciuto la stagione della Dolce Vita. Non le manca? «Ognuno vive nel mondo che gli è dato. Io, a differenza di mio nonno, non ho fatto la guerra, perché la guerra non c’era. E non ho fatto la Dolce Vita, perché la Dolce Vita non c’è più. Nel dopoguerra, alla fine di un’emergenza, si affacciò una generazione giovane, in una fase di grande crescita. Lavoravano molto, e si divertivano molto». La dolce vita lei se la sarebbe potuta costruire. Monetizzando, e divertendosi. «Avrei deviato la rotta, anziché affrontare la burrasca. Sono contento che con i miei soci dell’Accomandita e con i collaboratori stretti di mio nonno abbiamo fatto questa scelta: affrontare la situazione è stata la cosa giusta». Lei ha due figli maschi, ma nessuno si chiama Giovanni. Perché? «Con mia moglie, non volevamo nomi legati a un percorso familiare, che li vincolassero. Abbiamo scelto nomi che li identificano, che hanno un significato per noi, a prescindere dal cognome». Aldo Cazzullo