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 2008  gennaio 27 Domenica calendario

COLOMBOTTO ROSSO Enrico Torino 7 dicembre 1925. Pittore • «Un casolare della campagna alessandrina, come tanti

COLOMBOTTO ROSSO Enrico Torino 7 dicembre 1925. Pittore • «Un casolare della campagna alessandrina, come tanti. Ma varcato il passo carraio, fra busti di generali e re sabaudi in pietra e grandi damigiane in vetro color pece, ecco spalancarsi il ”Vittoriale”, o forse meglio il gozzaniano ”Meleto” di Enrico Colombotto Rosso, di un kitsch autoironico e teatrale. Stanze e stanze con luci liberty fioche che sfiorano pareti tappezzate di foto e quadri: c’è l’Olimpia di Gianni Penati e il pesce di gomma che si muove cantando canzoni americane, ritratti di famiglia, con quell’incrocio di liguri, toscani e valdostani, bagni dalle volte affrescate, i sanitari celati da tende bianchissime e colonne dorate, provenienti da una rinomata casa di piacere di inizio ”900 di Parigi. E ci sono tubetti di colore, boccetti di chine, pennini dalle silhouette più dimenticate e pennelli, spatole. Sono i ferri del mestiere di questo pittore [...] un ultraottantenne molto atletico nel fisico e nella mente, che l’anno scorso ha terminato un’opera lunga un chilometro, tagliando e lavorando su fogli di carta, preparati a china e disegnati in oro e argento, di quattro metri: 250 tavole, un gigantesco giudizio e svelamento della figura umana. La sua avventura di pittore inizia con una sonora bocciatura nell’arte del disegno che gli infligge il severo Casorati. Non si scoraggia, continua a frequentare uno zio che ha la passione per la pittura e un abbonamento alla Vie Parisienne. Intanto lavora in banca, alla ”San Gaetano”, dove il padre ha notevoli capitali, ma dove, soprattutto, conosce Mario Tazzoli, un ragazzo affascinante, sveglio, diviso fra cinema e pittura. Ha finanziato, in parte, lo Sceicco bianco di Fellini, un flop commerciale, ma si è rifatto, insieme al produttore Rovere, con Persiane chiuse, pellicola modesta e di gran successo. Ma è la pittura a sedurre Tazzoli e con Colombotto Rosso apre in via Viotti la ”Galatea”, rilevando i locali di antiquario da Filippo Giordano delle Lanze. I due cominciano a correre: Venezia, Parigi, Londra, New York. Vedono alla Biennale Bacon, corrono a Londra a conoscerlo, a comprarlo a rivenderlo all’avvocato Agnelli. E più tardi anche un mio ”Nano”, che andò a tener compagnia al Bacon e a un ritratto di Virginia Agnelli fatto da Eleonor Fini. Sono gli Anni ”50. Sbarcano a New York, vedono ”pacchi” di acquarelli di Schive, a 60 dollari l’uno, ne comprano quaranta. Intanto Colombotto tiene le sue prime mostre alla ”Galatea”, Testori è uno dei suoi presentatori. Il suo è un mondo inquieto, notturno, dionisiaco, legge Freud e Nietzsche, disegna e dipinge gli orrori dell’uomo, le sue paure, il lato oscuro. Ama il surrealismo e l’espressionismo, la pittura sanguigna e violenta ma trattata con classicità, con la perizia e dolenza dei grandi maestri, Goya su tutti. Quando Torino gli si fa stretta, racconta oggi, se ne va a Parigi. Ci va con quella sua pittura che può piacere ai bellicosi surrealisti ma anche con quel suo fare ironico e spavaldo, solare. E questa doppia natura incrocia e seduce Leonor Fini, ”androgino” mondano, pittrice di valore e gran pubblicitaria di se stessa. Un incontro che si blocca nella memoria privata e pittorica di Colombotto Rosso in un mix di mondanità e ascetismo: case piene di gente e ritiri in conventi semidiroccati in Corsica. L’amicizia con Bianciotti ”tuttofare” in casa Fini, e con Genet che gli rivelava i suoi ”colpi” nelle gioiellerie romane e i mesi passati in carcere a Torino. ”In realtà non aveva sempre bisogno di rubare - dice Colombotto Rosso - ma è che in carcere trovava le sue avventure erotiche. Il galeotto era il suo tipo”. Le sue Veneri, le sue Figure, le sue Libellule, i suoi Mostri color rosso sangue, come le sue Melanconie, le Via Crucis e le Madonne, raccontano il dolore inespresso o soffocato di un mondo che non ha voglia di vederlo rappresentato con tale durezza. questo uno dei motivi per cui l’artista da oltre un decennio si è ritirato nel suo romitaggio di Comino, ”lontano dal mercato, lontano dai galleristi. La mia è una pittura che disturba e non è commerciale. E sono grato a Vittorio Sgarbi che invece non mi dimentica e sovente mi invita alle sue mostre”, ma lavorando intensamente, esponendo in spazi pubblici, provando nuove tecniche e nuovi materiali, come la ceramica, con una mostra a Palazzo Gavotti di Savona: maschere, danzatrici, ritratti del’anima. Ma soprattutto con un taxi sotto casa per andare a vedere le mostre, per guardare cosa succede in pittura. Ma il suo rapporto con i pokeristi, i concettualisti, la transavanguardia rimane di curiosità critica. Dice: ”Paolini è intelligente ma troppo delicato, quasi femmineo. Merz più maschio, violento, mi interessa di più. Mi era simpatico Boetti, ma si faceva fare tutto dalle povere tessitrici afghane… Salvo era partito molto bene, ma ho ora l’impressione che gli chiedano troppo, che non lo lascino dipingere tranquillo… Ho guardato alla Transavanguardia… ero attratto ma poi ho avuto l’impressione che non curino abbastanza la materia. Non devono farsi rovinare dal denaro. Ho visto una mostra di De Maria in Svizzera, si capisce che guarda Klee, ingigantendolo. A me nei quadri piace sentire una emozione pesante, quanto il pittore sia marchiato dalla vita, dalle gioie e dai dolori”. Gli interessa e lo emoziona Kiefer, guarda sempre alla pittura nordica, alla sua luce, alla sua tecnica. Se gli si chiede un nome di gallerista torinese, che non sia Tazzoli, risponde: ”Gian Enzo Sperone, colto, brillante. Da ragazzo veniva da me a guardare i libri sugli artisti, come io avevo fatto con quelli di mio zio. Saltò dal Surrealismo alla Pop Art con gran velocità, come poi corse da Castelli a New York a comprare gli americani. Era la fine degli Anni ”50. Mi vendette un autoritratto di Warhol per cinquantamila lire. Avrei voluto comprare la sedia elettrica, ma ne costava quattrocento. Se non ricordo male la acquistò un dentista….”. Un rimpianto? ”Vorrei vedere il mio Chilometro svolto ed esposto. Ma come, ma dove?”» (Nico Orengo, ”La Stampa” 27/1/2008).