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 2008  gennaio 26 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 28 GENNAIO 2008

Giusto una settimana fa lo spauracchio di una recessione dell’economia Usa ha causato forti perdite nelle borse di tutto il mondo. [1] Tokyo -4%, Shangai -5,14%, Milano -4,85% , Londra -5,48%, Parigi -6,83, Francoforte -7,16% ecc. [2] Salva Wall Street grazie alla chiusura degli scambi per le celebrazioni di Martin Luther King, [3] è stato per l’Europa il peggior risultato dall’attentato alle Torri Gemelle. [4] La crisi ha coinvolto tutti i comparti. Giacomo Ferrari: «Gli operatori in questi casi vendono di tutto e in particolare i titoli che mantengono ancora qualche margine di guadagno, per dirottare la liquidità verso strumenti finanziari ritenuti meno rischiosi». [2]

L’ultimo colpo alla fiducia dei mercati era giunto il 18 gennaio, quando Bush aveva annunciato sgravi fiscali per 145 miliardi di dollari (l’1% del Pil). Federico Rampini: «Eppure Wall Street ha reagito con delusione. Infatti ci vorranno mesi perché quei soldi arrivino alle famiglie, e quando l’assegno del Tesoro verrà recapitato nelle cassette delle lettere, è ormai chiaro come verrà speso: non certo in nuovi consumi che rilancerebbero la crescita. Quegli assegni da 800 dollari per i single (1.500 per le famiglie) alla maggioranza dei destinatari serviranno a malapena per ridurre lo ”scoperto” dei mutui o delle carte di credito». [5]

In Asia la seduta di martedì si prospettava persino peggiore di quella del giorno prima. Arturo Zampaglione: «E poteva succedere di tutto, persino il ”meltdown”, una liquefazione dei mercati simile al lunedì nero dell’ottobre 1987». [3] La Banca centrale americana ha giocato d’anticipo. Ferrari: «Di prima mattina, quando le contrattazioni a Wall Street non erano ancora iniziate, ha annunciato a sorpresa il taglio dei tassi d’interesse Usa. Costo del denaro (agganciato ai Fed funds) e tasso di sconto sono scesi così di tre quarti di punto, al 3,50%». [6] Bisogna risalire al 1984 per ritrovare un taglio dello 0,75% in un colpo solo. [7] Alberto Quadrio Curzio, preside della Facoltà di Scienze politiche alla Cattolica: «Ho l’impressione che Bernanke si sia lasciato spaventare dai mercati. E se il governatore di una banca centrale ha paura, allora vuol dire che non sta al posto giusto». [8]

«Quando le autorità avvertono il panico, il mercato smette di avere paura», dice lo strategist americano Teun Draaisma. [9] I fatti di giovedì sembrano dargli ragione. Elena Polidori: «I rialzi sono quasi spettacolari: più 5,93% Francoforte, più 4,75% Londra, più 3,86% il Mibtel a Milano, fanalino di coda nel Vecchio continente ma comunque in fortissima progressione. Ancor più strabilianti i risultati di Madrid (più 6,51%) e di Parigi: più 6,01%». [10] «The Big One deve ancora arrivare», ha commentato un banchiere americano. Federico Rampini: «Il Big One, che nel gergo dei geologi è il terremoto che un giorno forse sprofonderà la California nel Pacifico, per i mercati è il botto finale, il crac che incombe sulla finanza globale». [5]

«Il problema di liquidità è stato risolto dal calo dei tassi, ma resta il problema di solvibilità», ha commentato il finanziere George Soros. [11] Tassi e tasse: da anni la politica economica degli Stati uniti è condizionata dall’uso quasi esclusivo di questi due strumenti. Sulla base degli impegni elettorali, nel 2001 Bush ridusse drasticamente la pressione fiscale. Galapagos: «Ma la riduzione (in 10 anni quasi 1.500 miliardi) non ha operato secondo una linea di equità fiscale, ma ha peggiorato la distribuzione del reddito favorendo quelli superiori ai 200 mila dollari destinatari dell’80% dell’alleggerimento delle tasse». Risultato: «Decine di milioni di cittadini sono, così, stati costretti dalla pochezza del welfare a indebitarsi per riuscire a sopravvivere. A questo punto è intervenuta la Fed: Greenspan con una politica monetaria di basso costo del denaro ha esaltato il boom immobiliare e favorito i consumi delle famiglie tutti basati sull’indebitamento». [12]

I problemi americani sono essenzialmente due. Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago: «Innanzitutto si è innescata una recessione o un drastico rallentamento economico. Anche a prescindere dalla crisi dei subprime, era un processo fisiologico e forse inevitabile. Fino all’anno scorso l’immobiliare è cresciuto troppo e troppo in fretta». Secondo problema, quello finanziario: «Finora è stato possibile arginare i guai di banche e società finanziarie, ma c’è il rischio che le difficoltà portino a una diminuzione dei finanziamenti alle imprese, con contraccolpi per tutta l’economia». [13]

La spirale di insolvenze partita dai mutui subprime si è estesa ben oltre. Federico Rampini: «Nelle voragini di perdite che le maggiori banche americane aggiornano continuamente al rialzo, vengono risucchiate ora quelle compagnie assicurative che dovevano coprire proprio i rischi di insolvenze del settore immobiliare. un gioco al massacro in cui chi affoga trascina sott’acqua anche i presunti soccorritori». [5] Malcom Knight, direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali: «Ancora non abbiamo un’idea di quanto sia vasta l’esposizione globale verso i mutui subprime: potrebbe variare tra i 250 e i 600 miliardi di dollari». [14] Mario Sarcinelli, ex vice direttore generale della Banca d’Italia ed ex direttore generale del Tesoro: «Fino a quando non verrà fatta chiarezza sul sistema finanziario Usa, sull’esposizione delle banche, su dove sono concentrati i rischi, la pressione sulle Borse continuerà». [15]

«Attenti, le Borse continueranno a scendere. Cercate di ridurre la vostra esposizione ripagando almeno il debito che avete accumulato sulle carte di credito, quello più costoso. Preparatevi a vivere in un mercato del lavoro più precario», dicono i bollettini diramati negli Usa da giornali e tv. Gran parte degli americani non ha mai vissuto una recessione. Massimo Gaggi: «Dalla fine della Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni 80 gli Stati Uniti hanno attraversato nove periodi di arretramento dell’economia: in media uno ogni quattro anni. Ma nell’ultimo quarto di secolo la crescita è stata molto più stabile, fino al punto di indurre gli esperti a sostenere che – in un’economia ormai globale, con una finanza dotata di strumenti sempre più sofisticati e banche centrali che non avrebbero di certo ripetuto gli errori del passato – le recessioni erano destinate a scomparire dal calendario». [16]

Bush ha fatto sapere di «non vedere ancora i segni di una recessione, ma solo di un rallentamento». [3] La recessione, negli Usa, viene dichiarata dal Nber, un centro studi autorevole ma privato che la «certifica» quando ricorrono alcune condizioni come due trimestri consecutivi di caduta del reddito e una crisi palese del mercato del lavoro. [16] Carlo De Benedetti: «Non è molto rilevante il dibattito semantico tra chi sostiene che la recessione è già in atto e chi preferisce ancora parlare di un pesante rallentamento. In realtà nessuno sa quando toccheremo il fondo del barile». [17] Vittoria Puledda: «Secondo l’economista Nouriel Roubini, la recessione americana ”durerà per l’intero 2008” e anche se ”non sarà come quella del ”29, sarà la più difficile degli ultimi vent’anni”. Anche l’Europa sarà costretta a rallentare». [4]

Prima di questa ultima tempesta borsistica, l’Europa stava andando straordinariamente bene, a dispetto di un euro fortissimo e di una domanda mondiale in flessione. Zingales: «Ma i rischi sono elevati per tutti ed è forse il momento giusto per una svolta della Bce». [13] Jean-Claude Trichet, governatore della Banca centrale europea, ha gelato le aspettative di un ribasso dei tassi di interesse in Europa. [18] Per l’eurodeputato conservatore francese Jean-Pierre Audy «è come un one-man-band che continua a suonare sul Titanic mentre la nave affonda». [19] Rampini: «L’inflazione reale in Europa viaggia probabilmente attorno al 4% cioè il doppio dell’aumento dei prezzi che la Bce giudica ”sano”. L’istituto di Francoforte ha come compito istituzionale la stabilità dei prezzi, non la crescita economica». [5] L’economista Kenneth Rogoff: «La Bce fa benissimo a tenere le sue polveri asciutte per quando sarà necessario usarle». [11]

Non ci resta che sperare nell’Asia. [5] Paul Samuelson, premio Nobel nel 1970: «A lungo si è ritenuto che il termometro per misurare lo stato di salute dell’economia globale fosse l’andamento degli Usa con quello di Giappone e Germania. Oggi non è più così, ci sono nuove realtà come Cina e India che hanno acquistato un peso maggiore, ed è pertanto necessario valutare l’andamento delle economie di questi due Stati per capire l’orientamento globale». [20] Sunil Krishnan, direttore investimenti di BlackRock: «Dieci anni fa una recessione dell’economia americana avrebbe immediatamente avuto contraccolpi pesanti in Europa e in Asia, oggi le condizioni sono diverse». [21]

Il mercato Usa è per noi meno importante di una volta. Rampini: «Sia perché l’euro forte ha penalizzato la competitività delle nostre imprese, sia perché l’Asia ha sostituito l’America come sbocco principale per il made in Europe. Tuttavia la cinghia di trasmissione della malattia americana nella sfera finanziaria è ancora potente». [17] Wang Jian, capo della Società di macroeconomia cinese: «Se l’America importa meno dall’Europa, l’Europa a sua volta importerà meno dalla Cina». [22] De Benedetti: «Una crescita del Pil limitata all’1% non è brillante ma neppure catastrofica per continenti di vecchia industrializzazione come Stati Uniti ed Europa. Per la Cina invece crescere ”solo” del 5% (dall’11% attuale) sarebbe un serio problema». [17]

Causa la recessione Usa, la crescita cinese potrebbe fermarsi quest’anno all’8%. John Mack, numero uno di Morgan Stanley: «Ora anche lì tutti vendono in Borsa, impauriti dagli choc americani e dalla stretta monetaria di Pechino. Ma riparliamone fra un anno: Cina e India continueranno a correre anche se gli Stati Uniti si fermano». Steve Schwartzman, capo del superfondo Blackstone: « evidente che le economie emergenti sono fortissime, non arretreranno per i problemi dell’Occidente». [23] Soros: «Andranno in recessione i paesi più industrializzati e cresceranno quelli emergenti e l’effetto sarà un riequilibrio accelerato della distribuzione mondiale della ricchezza». [24]