Il Sole 24 ore 13 gennaio 2008, Franco Locatelli, 13 gennaio 2008
Diritti dell’impresa e campanili bancari. Il Sole 24 ore 13 gennaio 2008. Metabolizzare una fusione societaria è sempre un’operazione terribilmente difficile nella crescita di un’impresa o di un gruppo industriale o finanziario
Diritti dell’impresa e campanili bancari. Il Sole 24 ore 13 gennaio 2008. Metabolizzare una fusione societaria è sempre un’operazione terribilmente difficile nella crescita di un’impresa o di un gruppo industriale o finanziario. Lo è anche per una banca, come dimostrano in questi giorni le scintille tra UniCredit e il Banco di Sicilia (BdS), e lo è anche per un banchiere come Alessandro Profumo che di acquisizioni e aggregazioni societarie ne ha realizzate con successo un’infinità, sia in campo nazionale che internazionale. Nei processi di fusione, campanilismi e corporativismi sono all’ordine del giorno e di solito offrono il peggio di sé. Non si tratta di un fenomeno esclusivamente meridionale. Basta ricordare le ribellioni di due delle più ricche province del Nord, Mantova e Brescia, all’epoca dei tentativi, poi regolarmente andati in porto, di acquisire la Banca Agricola Mantovana a opera del Monte dei Paschi e la Bipop a opera della Banca di Roma. Lo strappo tra UniCredit e il vertice palermitano del Banco di Sicilia è certamente tutto questo, ma è anche molto di più e di diverso e non solo per l’intensità delle tensioni. Il problema del rapporto con il territorio assilla tutte le grandi banche e non sorprende che in un’area socialmente complessa come la Sicilia sia più acuto che altrove. Se ne accorse anche Cesare Geronzi, sette anni fa, quando il gruppo Banca di Roma dovette sudare non poco per incorporare il Banco di Sicilia. Ma il punto cruciale non è questo. Al di là dei personalismi, è evidente che la battaglia tra Profumo e il presidente del BdS, Salvatore Mancuso, è uno scontro di mentalità, di cultura e di strategia. Siamo davanti a una contrapposizione netta tra la logica di mercato di UniCredit e la filosofia e la prassi relazionale del banchiere siciliano che teme non tanto una colonizzazione, che non c’è stata e che probabilmente non ci sarà, ma la perdita di potere su due leve fondamentali come sono quelle delle assunzioni locali e dell’erogazione del credito. Se però si trattasse solo di questo, il caso Mancuso non meriterebbe tanto spazio perché una rivolta localistica con simili connotati è destinata a finire presto. Se la durezza della contesa arriva a mettere in discussione la libertà e i poteri di gestione del management che guida l’intero gruppo UniCredit è chiaro che c’è dell’altro e che, come direbbe Leonardo Sciascia, c’è un problema di contesto. A fare la differenza con precedenti turbolenze campanilistiche oggi è il valore (o disvalore) aggiunto della politica e della sua ansia di ingerenza nella vita delle aziende, che è tanto maggiore quanto più essa avverte la sua debolezza. La rivolta del presidente del Banco di Sicilia non avrebbe avuto l’enfasi che ha se mezza società politica dell’isola, in questo caso rappresentata per lo più dalle forze del centro-destra, non fosse impropriamente scesa in campo contro il diritto-dovere di UniCredit di organizzare la banca secondo il proprio modello di business e in difesa degli interessi di tutti i suoi soci. Solo ieri è affiorato qualche segno di ripensamento. Ma attenzione: quello sollevato dal BdS non è un problema solo del Mezzogiorno e non è un vizio di una parte sola del sistema politico. Il caso palermitano è diventato più eclatante di altri ma la cattiva politica non distingue tra Nord e Sud e tra destra e sinistra e le cronache di questi giorni ne offrono svariati esempi. Vogliamo parlare della Lega sul caso Bipop o del caso Morgando nei rapporti tra Intesa e Sanpaolo? Il 4 gennaio scorso un parlamentare e un consigliere regionale lombardo della Lega sono insorti contro il piano di integrazione di UniCredit annunciando iniziative in Parlamento e in Consiglio regionale contro l’«assorbimento» di Bipop, considerato lesivo degli interessi del territorio bresciano. Lunedì scorso, invece, il nuovo segretario del Partito democratico del Piemonte, Gianfranco Morgando, ha lanciato un durissimo atto d’accusa al presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Enrico Salza, reo, a suo avviso, di aver fatto perdere terreno a Torino rispetto a Milano nell’integrazione tra i due gruppi bancari. E poi ha seccamente richiamato il candidato alla futura presidenza della Compagnia San Paolo al compito di «evitare il fallimento della fusione bancaria». Il problema dei rapporti tra politica ed economia e in particolare tra politica e banche è una questione molto complessa che non nasce oggi, come si è visto un paio d’anni fa in occasione dell’«estate dei furbetti» e dell’assalto alla Bnl e all’Antonveneta in nome di una sedicente italianità. In questi anni il pendolo del potere si è spostato e in molti casi (anche se non in tutti, come sembra evidenziare la vicenda Alitalia) l’establishment bancario e finanziario è prevalso su quello politico. La partita però è aperta. Viviamo una fase di transizione in una società "liquida" nella quale manca una guida forte al centro del Paese e, di conseguenza, si affermano le corporazioni e i localismi deteriori. del tutto comprensibile che la politica soffra la sua debolezza e si interroghi sulla sua identità. Se però i politici pensano di recuperare terreno non con una lungimirante visione del futuro e con regole e indirizzi di grande respiro ma con l’invadenza e l’ingerenza nella vita e nella gestione delle imprese sbagliano di grosso e possono solo aggiungere danni a danni. Purtroppo i casi nati attorno al Banco di Sicilia, alla Bipop e al Sanpaolo in questo primo scorcio dell’anno non promettono nulla di buono. Prima o poi bisognerà riflettere sulle lezioni del passato. Franco Locatelli