Corriere della Sera 23 gennaio 2008, Sergio Romano, 23 gennaio 2008
BLOCCHI FERROVIARI: I PREDECESSORI DI CASARINI
Corriere della Sera 23 gennaio 2008.
di questi giorni la sentenza emessa da un giudice in relazione al blocco del traffico ferroviario effettuato nel 2003 da Casarini e altri, per impedire il transito di un convoglio che trasportava mezzi militari Usa e che sarebbero poi stati imbarcati per l’impiego nella guerra in Iraq. Il giudice ha applicato tutte le attenuanti del caso riconoscendo che gli imputati hanno agito per «motivi di particolare valore morale e sociale». Il commento del Casarini è stato: «Impedire una guerra è morale». Penso che la sentenza, oltre che a riconfermare che l’Italia, come da dettato costituzionale, ripudia la guerra, sembra anche riconoscere che l’impiego di mezzi militari di altre nazioni (nel caso Usa) partenti dal territorio italiano per missioni di guerra, sia quantomeno amorale. Poiché lo stesso principio dovrebbe/potrebbe trovare applicazione anche se a partire dal nostro territorio per missioni di guerra fossero truppe straniere, le chiedo come si configuri in questo nuovo contesto la decisione governativa di autorizzare la creazione di una nuova base militare Usa sull’aeroporto Dal Molin di Vicenza, e quale sarà il comportamento della magistratura in occasione delle future manifestazioni dei comitati «No Dal Molin».
Roberto Maria Minarini
rominarini@tele2.it
Caro Minarini,
Il blocco dei trasporti militari appartiene alle tradizioni della sinistra italiana. Nel 1911 due giovani uomini politici fecero del loro meglio per ostacolare la partenza dei soldati per la Tripolitania. Il primo era Benito Mussolini, leader della corrente rivoluzionaria del partito socialista, capo della federazione di Forlì e direttore del giornale
La lotta di classe. Il secondo era Pietro Nenni, repubblicano e segretario della federazione dei braccianti romagnoli. Uniti da un patto di collaborazione, i socialisti di Mussolini e i repubblicani di Nenni distrussero la linea telegrafica tra Forlì e Forlimpopoli e bloccarono il traffico sulla linea ferroviaria.
Due settimane dopo i due giovani agitatori vennero arrestati e accusati di resistenza alla forza pubblica, lesioni personali a pubblici ufficiali, violenta chiusura di esercizi e stabilimenti industriali, danneggiamento della linea telefonica, sabotaggio della linea ferroviaria. Il processo ebbe luogo al tribunale di Forlì il 18 novembre, poco più di un mese dopo l’arresto. La Lotta di classe, naturalmente, disegnò un ritratto molto positivo del suo direttore: « accuratamente raso, ha gli occhi più vivi e scintillanti del solito, è elegante, quasi azzimato, parla con la consueta energia e precisione, incisivamente». Nenni, invece, «è un giovanotto imberbe, simpatico, molto miope» e «ha un’aria tranquilla nonostante la Pubblica Sicurezza lo abbia definito un piccolo, ma temibile Robespierre».
Nel corso del processo, Mussolini ammise di avere ordinato gli atti di sabotaggio compiuti durante la manifestazione, ma sostenne che fra sabotaggio e vandalismo esisteva una importante differenza. E all’accusa di avere inscenato una manifestazione anti-nazionale rispose con un argomento apparentemente patriottico: «Fra noi socialisti e i nazionalisti c’è questa diversità: che essi vogliono un’Italia vasta, io voglio un’Italia colta, ricca e libera. Preferisco essere cittadino della Danimarca anziché suddito dell’impero cinese ». E alla fine dichiarò che l’assoluzione gli avrebbe fatto piacere, ma la condanna gli avrebbe fatto onore «perché voi vi trovate in presenza non di un malfattore, non di un delinquente volgare, ma di un assertore di idee, di un agitatore di coscienze, di un milite della fede, che s’impone al vostro rispetto perché reca in sé i presentimenti dell’avvenire e la forza grande della verità». Mussolini fu condannato a un anno di prigione e inviato al carcere di Bologna dove trovò Nenni, giunto qualche giorno prima, con cui strinse un’amicizia che sopravvisse, per certi aspetti, persino alla rottura degli anni seguenti. Vi fu un ricorso e la Corte d’appello ridusse la pena a cinque mesi.
Come vede, caro Minarini, l’Italia è il Paese in cui, come dice un proverbio francese, «più le cose cambiano, più sono sempre le stesse». Alla sua ultima domanda rispondo che sulla questione della base americana di Vicenza non ho cambiato opinione. Penso che sarebbe opportuno non soltanto rifiutarne il raddoppio, ma anche, e soprattutto, rimetterne in discussione l’opportunità e l’utilità. Ma se il governo, nella sua responsabilità, assume un impegno internazionale, occorre che nessuno gli impedisca di far fronte ai propri obblighi.
Sergio Romano