Il Sole 24 ore 19 gennaio 2008, Alberto Alesina, Andrea Ichino, 19 gennaio 2008
Meno tasse sul lavoro (e alle donne ancora meno). Il Sole 24 ore 19 gennaio 2008. L’aumento inaspettato del gettito fiscale e la conseguente riduzione del deficit pubblico forse permettono (finalmente) di considerare una riduzione delle aliquote sui redditi da lavoro
Meno tasse sul lavoro (e alle donne ancora meno). Il Sole 24 ore 19 gennaio 2008. L’aumento inaspettato del gettito fiscale e la conseguente riduzione del deficit pubblico forse permettono (finalmente) di considerare una riduzione delle aliquote sui redditi da lavoro. Certo, sarebbe meglio farlo dopo aver ridotto anche la spesa pubblica, in particolare per pensioni e retribuzioni, per evitare il rischio di ripartire con un deficit. Ma se vogliamo iniziare subito è preferibile farlo in un modo che offra maggiori garanzie di dare una spinta propulsiva all’economia. Ecco un modo: ridurre le aliquote sui redditi da lavoro con maggiore attenzione alla componente femminile. Innumerevoli studi statistici dimostrano che la risposta del lavoro femminile a riduzioni delle aliquote è molto più ampia di quella maschile nel senso che riduzioni generalizzate delle imposte fanno aumentare maggiormente l’occupazione delle donne, mentre l’effetto per gli uomini è quasi inesistente. Quindi se concentrassimo la riduzione del prelievo fiscale sulle lavoratrici, il gettito potrebbe ridursi meno che nel caso di una riduzione generalizzata. La riduzione delle imposte farebbe leva sia sull’offerta di lavoro che sulla domanda da parte delle imprese dal momento che la riduzione delle aliquote ridurrebbe di fatto il cuneo fiscale: il costo del lavoro femminile diminuirebbe per le imprese, mentre al tempo stesso aumenterebbero le retribuzioni delle lavoratrici al netto delle tasse. Che l’occupazione femminile sia uno dei motori della crescita non è una nostra scoperta: lo dicono in tanti, da ultimo Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera dell’8 gennaio, che vede nelle donne lavoratrici il fattore che ha consentito alla Spagna di superare l’Italia in termini di prodotto interno lordo pro capite. Il ministro Emma Bonino ha ripetutamente (e giustamente) richiamato l’attenzione pubblica sulla questione femminile, ricordando che in Italia il tasso di occupazione delle donne è tra i più bassi dell’area Ocse. Mentre in Italia di questo si parla poco, in altri Paesi europei si stanno discutendo proposte concrete più o meno ragionevoli. In Norvegia è stato proposto addirittura di imporre alle aziende quotate di riservare il 50% dei posti nei consigli di amministrazione alle donne: un intervento molto distorsivo e discutibile. In Svezia e Germania si impongono restrizioni sulle aspettative per maternità al fine di indurre i padri a stare di più a casa con i figli piccoli. In Spagna a fronte della legge sulle quote rosa di Zapatero, l’opposizione propone proprio una riduzione delle aliquote fiscali delle donne (El Pais, 12 gennaio 2008). Tra queste misure, la tassazione differenziata per genere ci sembra preferibile perché modifica gli incentivi privati in funzione dell’interesse pubblico ad aumentare l’occupazione femminile, senza però imporre restrizioni quantitative a lavoratori, lavoratrici e imprese, che sono quindi libere di usufruire o no dell’incentivazione a seconda delle proprio esigenze. In aggiunta, la tassazione differenziata non è un provvedimento che avvantaggia le donne a scapito degli uomini perché ogni famiglia in cui una donna lavori grazie all’incentivo, trarrebbe giovamento nel suo insieme dalla riduzione delle aliquote femminili nella misura in cui i suoi membri condividano le risorse acquisite da ciascuno. Non accadrebbe lo stesso, invece, con la costruzione di asili nido o di case di riposo per gli anziani. Oltre a ispirarsi al discutibile principio secondo cui lo Stato sa meglio dei cittadini di cosa loro abbiano bisogno, questi servizi pubblici aiuterebbero solo le famiglie con figli piccoli o con anziani bisognosi, ammesso (e non concesso) che queste famiglie non preferiscano invece un maggior reddito al netto delle tasse per assumere baby-sitter o badanti. E comunque questi servizi costano, ossia qualcuno li dovrebbe pagare con tasse più alte che disincetivano l’occupazione, soprattutto femminile. In questo modo lo Stato darebbe ad alcune famiglie con una mano e prenderebbe da tutte con l’altra! La tassazione differenziata per genere, invece, può essere facilmente strutturata in modo progressivo, consentendo di combinare una politica a favore delle donne con una politica contro la povertà e lo svantaggio sociale. Possibile che in Italia si continui a dimenticare che i servizi pubblici gratuiti sono un sussidio indiscriminato a tutti gli utenti di quei servizi, non necessariamente agli utenti poveri? Non solo, ma una produzione pubblica inefficiente di servizi, come quella a cui comunemente assistiamo in Italia, non crea problemi ai ricchi che possono comprare nel mercato, mentre lascia i poveri senza reddito, perché tassati, e con servizi scadenti. Lo Stato farebbe meglio a rinunciare alla produzione di servizi, usando la leva fiscale per ridistribuire in modo progressivo e quindi mettendo tutti i cittadini, anche quelli poveri, nelle condizioni di acquistare servizi più efficienti sul mercato. Le donne potrebbero temere che questo sia l’ennesimo inganno maschile: oltre a lavorare a casa nello stesso modo, ora dovrebbero anche lavorare nel mercato. Non è così perché la nostra proposta va proprio a intaccare la contrattazione familiare su chi si occupa dei figli, della lavatrice rotta e del cibo in frigorifero, ossia di tutti quei compiti, solo in minima parte connessi con i figli, che permettono a una famiglia di "sopravvivere" e di cui in Italia si occupano principalmente le donne a scapito delle energie che potrebbero dedicare al lavoro. Ben vengano soluzioni che riducono il numero di questi compiti ma il punto è come essi vengono suddivisi tra i sessi all’interno della famiglia. Con l’esclusione (forse) della cura dei figli molto piccoli, non si vede perché di tutto il resto non si debbano occupare anche gli uomini. Se le donne avessero più reddito (al netto delle tasse), come accadrebbe con la nostra proposta, avrebbero un maggiore potere contrattuale nei confronti degli uomini. Ossia potrebbero con ottimi argomenti dire loro: "Oggi stai a casa tu, perché il nostro reddito familiare (al netto delle imposte) aumenta di più se vado a lavorare io!". La nostra proposta va proprio a incidere sul fulcro del problema: l’allocazione dei compiti tra i sessi all’interno delle famiglie italiane che è molto più sbilanciata di quella prevalente in altri Paesi europei. Alberto Alesina Andrea Ichino