La Stampa 19 gennaio 2008, Alberto Papuzzi, 19 gennaio 2008
Addio Fischer. La Stampa 19 gennaio 2008. E’ stato la meteora degli scacchi mondiali. Così come James Dean lo fu del cinema
Addio Fischer. La Stampa 19 gennaio 2008. E’ stato la meteora degli scacchi mondiali. Così come James Dean lo fu del cinema. O come Jack Kerouac per la letteratura. Oppure Hugo Koblet nel ciclismo. Si parla dell’americano Bobby Fischer, genio e sregolatezza, un campionato del mondo, quello del 1972, letteralmente dominato, da Terminator della scacchiera, il resto della vita quasi buttato, fra provocazioni e deliri, morto martedì, a soli 64 anni, in un ospedale di Reykjavik, per insufficienza renale. Viveva in Islanda in esilio da quando gli Stati Uniti avevano emesso contro di lui un mandato di cattura, per aver violato all’inizio degli Anni Novanta l’embargo dell’Onu sulla ex Jugoslavia. Meteora perché ha attraversato il mondo dei Re e delle Regine, dei Cavalli e delle Torri come un’apparizione, inafferrabile ma folgorante, imprevedibile ma schiacciante, per scomparire nel nulla, salvo fare le misteriose e imprevedibili ricomparse di un fantasma, quale in effetti era diventato nella seconda parte della sua vita. Come quando, non più di un anno fa, un programma scacchistico della televisione islandese trasmise una partita fra due grandi maestri internazionali: il Nero sbaglia e perde, ma arriva una telefonato improvvisa, è Bobby Fischer che suggerisce una sequenza di spettacolari mosse con cui il Nero avrebbe invece potuto vincere. Di lui si può dire che ha vissuto una sola estate, quella del 1972, quando a Reykjavik si è combattuto il primo campionato del mondo che vedesse un americano sfidare un sovietico. La formula del torneo favoriva le vittorie a ripetizione dei sovietici (Botvinnik, Tal, Smyslov, Petrosian): infatti si disputava un torneo dei candidati per selezionare lo sfidante del campione in carica. Grazie alla pletora di assi sovietici e soprattutto alle combines del gioco di squadra, era sempre uno di loro. Non così quando entra in scena Bobby di Brooklyn che da solo sbaraglia gli altri candidati con una serie di 6 a 0, quindi fa fuori Boris Spassky, in ventun partite, fra l’11 luglio e il 1° settembre, con il punteggio finale di 12,5 a 8,5. Ciò che affascinava in quello scontro, non solo scacchistico ma anche politico, seguito passo passo come più non accadde da tivù e giornali, era l’atmosfera da duello dello sceriffo contro i pistoleros. Su sessantaquattro caselle bianche e nere si rinnovava il mito dell’individualismo americano, quello del lanciatore sul diamante del baseball, il mito narrato da Faulkner e da Hemingway. Chi è questo americano dinoccolato, con l’aria da bravo ragazzo del college, ma con l’ostinazione di uno cresciuto nelle strade, che sfida la più potente scuola di scacchi? Chi è se non un figlio dell’America più profonda, uno che sta a metà fra Bogey e De Niro, pronto a morire piuttosto che rinunciare all’ultima battuta? Era nato a Chicago nel marzo 1943, da un’ebrea di origine polacca sempre a corto di soldi. Il padre, un medico, se ne va quando lui ha due anni. Non è escluso che questo trauma spieghi il suo spirito ribelle. Cresce negli slums di New York dove la madre si è trasferita, è la sorella a regalargli una scacchiera, mentre la madre lo mette nelle mani di John Collins, il Bollettieri degli scacchi. A quattordici è campione degli Stati Uniti, il più giovane che ci sia mai stato. allora che comincia a vivere con un solo obiettivo in testa: sgominare i sovietici, essere l’uomo che batte il sistema, e diventare il primo americano campione del mondo di scacchi. I numeri ce li ha. capace come nessun altro di una pressione asfissiante sulle debolezze degli avversari. "Assassino della scacchiera", lo definisce il grande Garry Kasparov. Ma coi sovietici non basta essere il migliore: chiede cambiamenti, ottiene eliminazioni dirette fra i candidati, è duro, non si piega. Deve telefonargli Henry Kissinger per convincerlo a giocare anche se non tutte le sue richieste sono state esaudite. D’altronde conta sulle sue sole forze. Quando si inizia il match, la scena è da film-commedia: il team di Spassky è un gruppo di grandi maestri sovietici, con Fischer ci sono la sorella Joan e il vecchio Collins. A Reykjavik vince un premio di 250 mila dollari. Ma la vittoria segna anche l’inizio della parabola discendente. Nel 1975 rinuncia al titolo contro Anatolij Karpov, perché le sue regole non sono state accettate. Scompare letteralmente, c’è chi dice che sia in un monastero. Nel 1992 organizza a Belgrado una rivincita: vent’anni dopo di nuovo Fischer-Spassky. Ma vìola una precisa ingiunzione americana: viene incriminato, non può tornare negli Stati Uniti, si dichiara vittima di una "cospirazione giudaica". Il 3 luglio 2004 è arrestato in un aeroporto del Giappone, sempre per l’incriminazione contro di lui. Reykjavik, memore della popolarità che Fischer gli aveva regalato, gli offre asilo. Non ha più nulla dello scacchista allampanato di un tempo. diventato grasso, con una barbona bianca, da eremita o predicatore (è un po’ entrambe le cose). antisemita, misogino e misantropo. La Federazione Usa gli ritira la tessera per gli insulti agli ebrei. In un’intervista dichiara che "le donne sono molto più stupide degli uomini". Gli rimangono sprazzi di genialità: inventa un nuovo orologio per calcolare il tempo delle partite e a Buenos Aires propone una sua variante del gioco. Mette la firma su due libri di scacchi. Un suo avversario nei circoli americani, Paul Bisguier, così lo fotografa: "Non fosse stato un giocatore, avrebbe potuto benissimo essere un pericoloso psicopatico".Gli ultimi giorni Fischer fa perdere le sue tracce. Nel 1999 rilascia un’intervista nella quale sostiene di essere vittima di una cospirazione giudaica. Nel 2004, trovato con passaporto falso, finisce otto mesi in carcere in Giappone. Alla fine, due anni fa, trova asilo politico in Islanda.La rivincita e la condanna Fischer, da alfiere del mondo libero diventa ferocemente anti-americano. Nel 1992 gioca la rivincita con Spassky in Jugoslavia nonostante le sanzioni internazionali contro Milosevic. Gli Usa spiccano un mandato d’arresto. Non tornerà più in patria.Il match del secolo Campione americano a 14 anni e il più giovane "grande maestro" di tutti i tempi, ad appena 15 anni, Fischer conquista il titolo nel campionato del mondo in una tesissima sfida dall’11 luglio al 3 settembre 1972, a Reykjavik, battendo il sovietico Boris Spassky. Un’infanzia di peregrinazioni Robert James Fischer nasce a Chicago il 9 marzo 1943. Il padre Gerhardt, medico tedesco, e la madre Regina Wender, infermiera svizzera, divorziano quando Bobby ha 2 anni. Bobby, la sorella Joan e la madre si trasferiscono in California e poi a Brooklyn. Alberto Papuzzi