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 2008  gennaio 18 Venerdì calendario

Reykjavik. Ingegneristicamente parlando, camminare è tutto meno che una passeggiata. Non ci si pensa mai perché è naturale, a stento si ricorda quando si è appreso a farlo

Reykjavik. Ingegneristicamente parlando, camminare è tutto meno che una passeggiata. Non ci si pensa mai perché è naturale, a stento si ricorda quando si è appreso a farlo. Ma basta vedere un amputato per capire di colpo che inferno di complessità meccanica sia il più banale dei movimenti. Se si punta alla fluidità, a evitare l’effetto scarponi da sci, è un esercizio nient’affatto pedestre. Nessuno lo sa bene come quelli della Ossur. da qui, dal quartier generale nella bruma ghiacciata di Reykjavik, che sono uscite le lame di fibra di carbonio che hanno fatto correre al bi-amputato Oscar pistorius i 400 metri in 47"34. E sempre in questi laboratori, l’anima divisa in due tra i trucioli d’acciaio di un tornio industriale e la perfezione sottovuoto di Los Alamos, si sono inventati la prima gamba bionica. Quella che, grazie all’intelligenza artificiale di un computer lillipuziano, mima il comportamento dì una gamba sana, tutta muscoli e ossa. L’anno appena finito è stato il più sfavillante nella storia dell’azienda. Da quel 1971, quando Ossur Kristinsson, una deformazione congenita al piede sinistro, la fondò per migliorare la vita dei mutilati come lui. Inizìò con l’introdurre dei rivestimenti di morbido silicone al posto della stoffa che proteggeva il moncherino su cui montare la protesi. Una rivoluzione da poco, ma un bestseller che regge nel 2007 dei record per l’azienda. Prima il prestigioso Medical Design Excellenee Award per il «Proprio Foot», adottato anche dal Pentagono per i reduci. Poi il bilancio che ha registrato una crescita del 57 per cento. «Abbiamo continuato a espanderci nel settore ortopedico» minimizza la portavoce Edda Geirsdottir «acquisendo varie aziende come la francese Gibaud». Si, proprio quella delle cinture elastiche. Per non dire dell’Iraq. Da quel fronte e da quello afgano sono già tornati trentamila feriti, un bollettino vietnamita, e ottocento amputati. E il pur dissestato Veterans Affair, dipartimento del governo Usa per i reduci, nel 2006 ha speso per protesi 1,1 milioni di dollari contro i 529 mila del 2000. «Sono giovani, non è pensabile che smettano dì fare una vita attiva» constata Hilmar Janusson, il quarantenne biondo cenere in camicia nera che guida il settore ricerca. La sua filosofia è quella che campeggia sotto li logo aziendale: Life without limitations, vita senza limitazioni. E la applica tanto ai marines saltati su una mina quanto ai baby boomers, i sessantenni che cominciano ad andare in pensione con le giunture in sincrono con l’anagrafe ma la testa ragazzina. « gente che si aspetta di sciare o giocare a golf sino a 95 anni e noi li aiuteremo a farlo». Solo in America, il mercato principale della Ossur, sono in 15 milionl a soffrire di artrite ossea e molti di più di problemi ai legamenti. E gli over 70 raddoppieranno, oltre quota 70 milioni, entro il 2020. Percentuali ancor più vere nell’Italia della crescita sotto zero. «Per questo esercito di "giovani anziani" stiamo sviluppando il primo "tutore intelligente"» si inorgoglisce Janusson, «sottile, che quasi non si vede sotto i pantaloni, ma con sensori che quando avvertono un movimento pericoloso fanno gonfiare e irrigidire i sostegni che proteggono il ginocchio». Una sorta dì Abs di rotula e crociati, che eviterà strappi e chirurgia. E che si candida a diventare un rubamazzo nella ricca partita ortopedica, quella col montepremi da 1,6 miliardi di dollari, tre volte quello delle gambe artificiali. Nell’attesa degli smart braces, ultraleggere armature con chip che irrobustiranno articolazioni matusalemme, le gambe bioniche sono già arrivate. E vanno che è una meraviglia, Basta guardare Gummi Olafsson alle prese con uno spietato tapis roulant per capirlo. «Vede, man mano che la pedana si inclina il Proprio Foot si adatta alla nuova pendenza e garantisce una camminata fluida» dice senza neppure ansimare, mentre il rullo si impenna di quindici gradi e aumenta di velocitá. Dopo trent’anni di sofferenza, e milioni di antidolorifici ingollati per una gamba bastarda nata male, si è amputato nel 2004. i primi due annì li ha fatti con un piede a spinta meccanica. L’utilitaria delle protesi. Poi, come insegna Sun Tzu, ha provato a trasformare la sua debolezza in una forza. E, da imbianchino qual era, si è presentato alla Ossur offrendosi come collaudatore dei loro prodotti. Così è passato alle Ferrari, quelle con microprocessori che, interpretando la distribuzione del peso sul giunto, istruiscono il piede sui movimenti da fare. Restituendo un passo sciolto e aggraziato. Assieme a infiniti altri vantaggi.. «Finalmente riesco a posare tutto il piede per terra quando sto seduto, mentre con le protesi normali la punta rimane sollevata di 45 gradi» esulta, «e posso cambiare scarpe quando voglio senza dovermi rivolgere a uno specialista che regoli la protesi sull’altezza del tacco». Adesso, come certi attacchi da sei, è lei stessa a modificare il suo assetto a seconda del nuovo spessore. Sembrano dettagli, però è anche li che si nasconde il diavolo della differenza tra una vita normale e una disabile. Il quarantenne Gummi fa una media di quindici chilometri al giorno sulle gambe nuove di zecca, si assicura che siano impeccabili. Poi, una volta uscito dalla fabbrica, ha anche tempo per allenare la squadra di calcìo del figlio. «Prima lo facevo da bordo campo, pochi passi al prezzo di un male boia, mentre adesso corro. E il mio bimbo, tornato a sorridere, fa anche più gol». Gli stivali delle sette leghe non sono in saldo. Costano tra i venti e i trentamila dollari contro i 35 del modello a molla della canadese Niagara Prosthetics & Orthotics. Ma il confronto è improponlbile. Nella civilissima Islanda, come in molti altri Paesi con un buon servizio sanitario pubblico, li passa la mutua. E in America, dove gli amputati sono circa 240 mila, molte assicurazioni si sono arrese all’evidenza di tanta superiorità. La ricetta Ossur, che l’ha catapultata in meno di un decennio dalle dimensioni familiari al secondo posto al mondo (dopo la tedesca Otto Bock) tra le aziende protesiche, è l’ossessione per l’innovazione. Reinvestono il dieci per cento delle risorse in ricerca e sviluppo e hanno brevettato materiali e applicazioni. Dalla meccanica degli innesti in titanio, all’elettronica dei freni aerostatici, all’informatica delle schede madri miniaturizzate. Un capitale intellettuale che frutta gioielli come il Rheo Knee, la protesi per chi è stato amputato sopra il ginocchio. Gisli Jonsson la usa. Quasi cinquant’anni, capelli rasati e pantaloni con una zip che permette di staccare la parte di sotto. «Perché la faccio vedere quando potrei far finta di niente? Perché a 25 anni dall’incidente motociclistico che mi ha portato via la gamba non ho più alcun imbarazzo» spiega, svitandola e prendendola in mano quasi divertito. Anche lui è un tester. «La differenza decisiva sta nel chip che regola la resistenza: a seconda del peso che sente, e della direzione da cui proviene, indurisce o rilascia il ginocchio. E impedisce di cadere». Non ricorda neanche più quante volte è andato per terra prima. E non è solo il rischio di farsi male. lo sforzo immane che una mancanza di coordinamento esercita sulla schiena. Ma anche l’umiliazione di sapersi fragile, grande e grosso, però perennemente a rischio di ruzzolare. «Da quando ho questo modello sono tornato a guidare la moto: per me è stata una vera catarsi» confessa, «è una bestia da trecento chili ma basta che regoli i settaggi su "alta resistenza" e riesco a tenerla in piedi. La prima volta che son riuscito a metterla sul cavalletto avevo le lacrime agli occhi». Cammina anche in discesa, se è per quello, la «pista nera» degli amputati. Il suo è l’entusiasmo dei rinati. Ringrazia gli dei di Ossur per la resurrezione. Che però non hanno alcun culto di sé. Sebbene all’ultirno World Economic Forum di Davos fosse seduto accanto a Larry Page di Google, nella stessa categoria di «pionieri tecnologici», qui il presidente Jon Sigurdsson sta nell’open space come tutti. Stessa scrivania di faggio, stessa poltrona ergonomica. Nessun altarino. Riccardo Staglianò