La Stampa 21 gennaio 2008, Tito Boeri, 21 gennaio 2008
Camicia di forza. La Stampa 21 Gennaio 2008. Dopo nove mesi e otto giorni di estenuanti trattative, con sei mesi di ritardo rispetto alla scadenza naturale del contratto, i lavoratori metalmeccanici hanno ieri finalmente trovato un accordo
Camicia di forza. La Stampa 21 Gennaio 2008. Dopo nove mesi e otto giorni di estenuanti trattative, con sei mesi di ritardo rispetto alla scadenza naturale del contratto, i lavoratori metalmeccanici hanno ieri finalmente trovato un accordo. Questa volta hanno firmato tutti, anche la Fiom. E’ un bene che si ponga fine a un conflitto sociale che poteva degenerare in una fase delicata, di crescente instabilità politica. un bene anche porre fine a manifestazioni di piazza e blocchi stradali, che avevano già arrecato non pochi disturbi ai cittadini. Ma non ci sono lezioni né di merito, né di metodo da imparare da questo contratto. L’accordo è figlio di quegli assetti centralizzati della contrattazione, con un forte coinvolgimento dell’esecutivo e con un forte appiattimento retributivo, che hanno portato all’esplosione della cosiddetta questione salariale. La presenza di un accordo nazionale inderogabile, con un ulteriore incremento salariale uniforme per tutte le imprese che non fanno contrattazione di secondo livello, impone incrementi salariali uguali su tutto il territorio nazionale, a dispetto di differenze consistenti nel costo della vita. Lo impone a un insieme di imprese molto diverse, che vanno dalla Fiat alle aziende che producono software, da quelle della componentistica elettronica a quelle artigianali della lavorazione dei metalli, dagli odontotecnici agli orafi. Non si rendono possibili quelle innovazioni nella struttura retributiva che possono favorire un recupero della produttività e, con essa, un più forte incremento dei salari. Non si riesce, una volta di più, a innovare l’organizzazione del lavoro: la sua disciplina, peraltro molto dettagliata, nel contratto dei metalmeccanici rimane ancora la stessa di 35 anni fa. E il coinvolgimento diretto del governo nella contrattazione salariale lo espone a pressioni che non dovrebbe subire: il salario nel settore privato non è materia di sua competenza. Da domani, c’è da scommetterlo, torneremo ad assistere alla questua per spartirsi il nuovo tesoretto sotto la minaccia di uno sciopero generale, già indetto per il 15 febbraio. Non passa giorno senza che arrivino nuove richieste per spartirsi la torta, da chi sin d’ora è stato escluso dal negoziato. Prima Confindustria ha chiesto di ridurre di 5 punti il cuneo fiscale sul lavoro, proponendo, bontà sua, di destinare questa volta 3 punti ai lavoratori e 2 ai datori di lavoro. Poi sono arrivate le richieste delle sigle destinate normalmente alle briciole, ai posti in seconda fila ai tavoli della concertazione. E poi c’è una concertazione in atto all’interno della stessa maggioranza. Si discute su a chi dare e a chi togliere. Non stupisce che i sindacati reclamino sconti fiscali per i loro iscritti; né che l’associazione degli imprenditori li reclami, questi sgravi, per i propri aderenti. Sorprende invece che il governo non abbia sin qui avuto la capacità di arginare queste richieste sempre più pressanti indirizzandole a una strategia di politica economica che miri a risolvere i due problemi di fondo del paese: la bassa crescita strutturale e gli oneri imposti dalla montagna di debito pubblico. Il malessere che i lavoratori lamentano trae origine proprio dalla combinazione di questi due problemi. In una economia che non cresce non vi sono risorse da redistribuire, non ve ne sono per migliorare le condizioni di vita, non ve ne sono per investire nel proprio futuro. In un’economia oberata dal debito pubblico, il peso della tassazione lascia poche risorse disponibili ai consumatori limitandone la capacità di spesa. Proprio per questo non si possono risolvere i problemi del nostro paese con una semplice redistribuzione delle risorse. L’unico risultato sarebbe quello di avere l’anno successivo un’altra categoria pronta a porgere il cappello perché è venuto il suo turno. Il reddito disponibile del settore privato nel suo complesso non cambierebbe e, con esso, in modo significativo la domanda di beni. Gli squilibri della finanza pubblica rimarrebbero gli stessi di prima o peggiorerebbero. Questo modo di procedere ci condanna, in prospettiva, a una guerra fra poveri, destinandoci a perdere sempre più posizioni nella gerarchia internazionale dei paesi per reddito pro capite. Dopo la signora Ruiz sarà il signor Stavrakis a superarci. Per cercare una via d’uscita ai problemi del paese e al malessere degli italiani bisogna che la politica economica e, con questa, la contrattazione tra le parti, tornino a guardare in avanti anziché indietro. La questua di queste settimane guarda solo all’indietro, vuole ridistribuire l’extragettito del 2007, dando per scontato il fatto che si ripeterà nel 2008. Il governo prende tempo aspettando di conoscere i consuntivi dell’anno scorso. Mentre la contrattazione salariale interviene in costante e crescente ritardo per rimediare a posteriori alla perdita di potere d’acquisto dei salari. Tutto questo non può incentivare, stimolare comportamenti che facciano crescere il paese, la produttività del lavoro e l’occupazione, quantità e qualità dell’impiego al tempo stesso. Ecco un impegno che il governo e l’opposizione potrebbero prendere nei confronti degli italiani. Il prelievo fiscale sul lavoro diminuirà quando e dove si riuscirà a far crescere produttività e occupazione al tempo stesso. Le parti sociali saranno così stimolate a rafforzare il legame fra salario e produttività in ciascuna impresa. Forse penseranno di più a come rendere più produttivi e stabili i tanti nuovi posti creati in questi anni tra i giovani e gli immigrati, ignorati una volta di più dal contratto dei metalmeccanici (che pone un tetto di quasi 4 anni al lavoro temporaneo, un’eternità). E sarà chiaro a tutti che è la crescita a rendere possibile il taglio delle tasse anziché il contrario. Tito Boeri